di Salvatore Rotondi

“I due giorni più importanti nella tua vita sono il giorno in cui nasci
e il giorno in cui scopri il perché sei nato.”
(Mark Twain)

“Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte, la vita è puro rumore tra due insondabili silenzi.”
(Isabel Allende)

“La vera tomba dei morti è il cuore dei vivi.”
(Jean Cocteau)
Scena tratta dal film Matrix

Tutto quello che ha un inizio ha una fine, Neo” (Matrix Revolution, 2003). Questa frase viene pronunciata dall’Agente Smith nel piano sequenza topico della trilogia “Matrix”, iniziata qualche anno prima a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. L’ho da sempre ritenuta una delle frasi più simboliche del cinema contemporaneo, nonché portatrice di profonde riflessioni sulla natura impermanente del nostro Esserci in quanto Umani. Nel film sembra si volesse quasi proporre il paradosso del fatto che un sistema di simulazione informatica, praticamente quasi perfetto (come inteso dall’equazione immaginata dal suo Architetto), possa soccombere innanzi al pericolo di una stabilità infinita, resa impossibile proprio dall’inserimento nell’equazione della natura umana, tesa continuamente tra il suo nascere e il suo morire, alla continua ricerca di un proprio Senso. 

Carro Alato dell’anima in Platone

Se pensiamo allora all’etimologia della parola nascere, possiamo notare come essa si ricollega all’antica radice sanscrita g’an-, dalla cui successiva trasposizione in gna- deriva il latino nasci (in origine gnasci) ovvero: venire alla luce, nascere. Dalla medesima radice indoeuropea derivano anche altre parole come Natale e, soprattutto, il termine conoscenza.

La nascita, uscire al Mondo, Esser-ci, sembra essere quindi l’origine della conoscenza umana. Adamo ed Eva mangiarono dall’Albero della Conoscenza: venne così al Mondo l’Humanitas. Queste associazioni mi riportano così alla mente la credenza orfica delle metempsicosi (reincarnazione delle anime dopo la morte), ovvero il mito dell’anima secondo Platone. Secondo tale mito, l’anima viveva, un tempo, una vita divina e si muoveva al seguito degli dei nutrendosi del mondo intellegibile chiamato iperuranio (il mondo metafisico). L’iperuranio è un mondo che l’anima riesce però a raggiungere solo sporadicamente nella sua vita celeste di contemplazione. In quello stato contemplativo, le anime vengono guidate da un carro spinto da cavalli alati, uno più docile e l’altro più irruento; mentre il secondo corre sempre verso l’alto, il primo mira verso il basso. Questa tendenza rende il controllo del carro molto difficile, pertanto più ci si avvicina al limite del cielo e più si sbanda. Succede quindi che alcuni carri sbandando e si scontrano con altri, tranciando così le ali dei cavalli. Nella caduta, come conseguenza di tale perdita di ali, il carro (che rappresenta l’anima) si aggrappa a un corpo e così facendo dimentica tutta la conoscenza che gli veniva dal mondo metafisico che, però, resta in lui ma solo come inconscia tensione al ricordo.

Rappresentazione della caduta con l’Albero della Vita

La dimensione della caduta, che ricorda anche un po’ la discesa del divino attraverso le Sephiroth dell’Albero della Vita nella Cabala ebraica, rimanda il mio pensiero all’etimologia del termine caduco parte dal càdere latino, ovvero ciò che è destinato a cadere. Già in latino però bisogna ricordare che il caducus prendeva una dimensione figurata, raccontando il fragile, il precario, ciò che sta per cadere. Così in italiano il caduco si fa da subito: labile, fugace, effimero, ciò che è destinato a cadere, a cessare, a svanire in breve tempo, a morire.

Rappresentazione della caducità del bello in Freud

La caduta, associata al morire, alla fugacità, mi fa ripensare così ad un breve articolo, scritto nel 1915 (dopo cioè un anno di Grande Guerra, durante il quale molti degli intellettuali, europei e americani, iniziarono a porsi domande sulla permanenza e la relatività delle conquiste umane, nonché sul loro uso), da Sigmund Freud proprio sulla Caducità (Vergänglichkeit). Il tale articolo Freud riflette su un episodio accadutogli nell’agosto del 1913, a San Martino di Castrozza, in cui in una conversazione durante una passeggiata con due amici, aveva trattato il tema della caducità dei fenomeni, anche di quelli che in apparenza sono solidamente universali. Il tema era stato introdotto dall’amico, che viene definito “il poeta”, il quale insisteva sulla caducità e inutilità del “bello” e, in senso generale, sulla transitorietà dei fenomeni. Freud sosteneva che questo fatto era innegabile ma che non sminuiva il valore della bellezza poiché “Se un fiore fiorisce una sola notte, non per ciò la sua fioritura ci appare meno splendida.”. (S. Freud, Caducità, in Opere, a cura di C. L. Musatti, Boringhieri, 1982, vol. VIII, p. 174.). Questi commenti lasciarono comunque indifferenti i due amici e Freud ne concluse che l’operazione di svalorizzazione era dovuta alla elaborazione anticipata del lutto, per esempio per la perdita inevitabile della bellezza della gioventù e dell’innocenza. L’essere umano cerca cioè di attenuare il godimento di ciò che è inteso come bello, onde evitare il dolore che gli darà la sua perdita. Così facendo, però, l’essere umano rende il pensiero della caducità stessa una fonte perturbante. In conclusione dello stesso articolo, Freud comunque esprime la Speranza che, superato il lutto della perdita dovuto alla Guerra di ciò che ritenevamo immutabile, in quanto esseri umani saremo capaci di elaborarne la sofferenza della precarietà, attraverso l’opera di ricostruzione di ciò che è ora distrutto.

Rappresentazione dell’Eterno Ritorno in Nietzsche

Ovviamente Freud non tiene presente che, per raggiungere un tale obiettivo, veniva richiesto all’umanità intera un profondo processo di analisi e di conoscenza della propria natura. Guardando alla Storia ed a quanto accaduto con la Seconda Guerra Mondiale, possiamo vedere come ciò non solo non avviene (forse soprattutto per le ferite non sanate tra le identità di popoli che si riconoscevano come diversi e per l’incapacità di valutare la diversità come qualcosa di bello, positivo, da coltivare), ma addirittura lascia a Noi l’eredità della paura atomica, prima acquisizione umana capace di annichilire definitivamente ogni forma di vita e di biodiversità sul pianeta Terra. A tal proposito mi viene nuovamente in mente la trilogia di Matrix dove l’Agente Smith impegnato a rendere tutti uguali a Lui, elementi di un sistema che non si riconosce più e che perde la sua “diversità digitale”.

Sappiamo d’altronde benissimo come un ambiente naturale, in cui la bio-diversità è pari allo zero, è destinato a finire, a morire. Se allora ci rivolgiamo ora all’etimologia della parola morte vediamo come essa sia riconducibile alla radice sanscrita mar-, trasformatasi successivamente in mor-. Nello zendo (la lingua dei testi sacri zoroastriani dell’antico Iran), possiamo vedere poi come il concetto di morte venga detto anche usando il termine mara, da cui l’italiano marasma, ovvero stato estremo di consunzione. Anche il greco antico ha, infine, importato questa radice mar-: il verbo μαραίνω (maraino), infatti, significa consumare, distruggere. È interessante quindi notare come alla stessa radice sanscrita viene così associata l’origine etimologica del termine “mare” che, ad oggi, sappiamo essere paradossalmente la culla della vita, origine di ogni diversità naturale.

Come se stessimo attraversando un fiume esistenziale, tutti Noi quindi torniamo al Mare, così come i “non nati” umani coltivati nei campi dalle macchine di Matrix, ritornavano ad essere un liquido, dopo la morte, per nutrire i vivi attraverso loro stessi: un eterno ritorno di ricorsi storici. 

Rappresentazione della nascita/non-nascita dell’uomo in Matrix

L’eterno ritorno dell’uguale (filosoficamente fondamentale nell’opera di Friedrich Nietzsche) lo ritroviamo solitamente nelle concezioni cicliche del Tempo, per le quali l’universo rinasce e ri-muore in base a cicli temporali fissati e necessari, ripetendo eternamente un certo corso e rimanendo sempre sé stesso. È interessante la genesi di questo pensiero nella mente di Nietzsche. Nell’Estate del 1881 egli si trovava a Silvaplana in Engadina, luogo montano vicino ad un lago; durante una passeggiata mattutina ebbe una intuizione sul fatto che, essendo il mondo composto da un numero infinito di elementi che non si creano né si distruggono (dato che Dio non esiste), è inevitabile che essi dovranno riaggregarsi per un numero infinito di volte. Da questa intuizione, ne “La gaia scienza” del 1882, Nietzsche formulò la sua concezione dell’eterno ritorno: la vita verrà vissuta innumerevoli volte, senza mai nulla di nuovo ma con ogni dolore, piacere, pensiero e sospiro che continuamente faranno ritorno, nella stessa sequenza e successione, perché l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre capovolta per noi, semplici granelli di polvere.   

In questa visione polverosa del nostro esistere mi sembra adeguato allora ricordare l’opera di Gianbattista Vico che più di un secolo prima, ne “La Scienza nuova” (1744), intese stabilire una fondamentale differenza tra conoscenza divina e conoscenza umana. Infatti, se quello divino è un’intelligere perfetto di ogni elemento dell’oggetto, l’uomo invece può soltanto limitarsi al pensare, ovvero al cogitare, raccogliendo fuori di sé gli elementi necessari alla formulazione di una verità, della quale potrà solo essere partecipe senza mai riuscire a possederla. Proprio per questo, intendendo la Provvidenza divina come l’architetto della Storia e l’uomo come il suo fabbro, Vico cerca di proporre la Storia umana come il campo di ricerca basilare attraverso cui indagare le cause e rinvenire le leggi provvidenziali cui obbediscono gli eventi storici stessi. La Storia umana è così intesa come il tentativo di superamento dello stato primitivo di caduta e di bisogno, onde dirigersi verso l’ordine divino a cui l’Uomo sente di appartenere. Questo sforzo, denominato da Vico “conato”, è necessario per superare quegli impulsi primitivi che limitano l’uomo, così che, prima della costituzione della società, non è possibile parlare di umanità in senso proprio. All’interno della sua filosofia della storia, Vico così concilia (attraverso la metafora dell’architetto-Dio e dell’uomo-fabbro) la libera azione umana con l’ordine garantito dalla provvidenza divina, la quale orienta l’azione umana, che è in sé tendenzialmente distruttiva, in direzione della conservazione e miglioramento del mondo della storia. 

Rappresentazione dei Corsi e Ricorsi storici in Gianbattista Vico
Rappresentazione della Conoscenza volta al cambiamento in Matrix

La storia, narrazione nietzschiana di un eterno ritorno dell’uguale nell’esistenza umana, si fa così un ciclo di corsi e ricorsi, dove l’età degli dei (fantasia), degli eroi (senso) e degli uomini (ragione) si susseguono ciclicamente, in un percorso in cui allo sviluppo razionale dell’ultima età subentrano, per degenerazione, germi di corruzione e crisi che fanno crollare le istituzioni sociopolitiche, fino alla tirannide e all’anarchia, espressione della crisi di ogni civiltà. Ma anche in questo la provvidenza fornisce rimedi, attraverso l’emersione di nuove guide e di nuove leggi che indicano nuovamente la rotta da seguire, con la riscoperta della semplicità nel riconoscersi e nel fidarsi gli uni degli altri.  

Forse, in conclusione, è proprio questo che rende bella la Vita e degna di essere vissuta: la tristezza di perdere ciò che si era conquistato (morte) e la speranza di una nuova riconquista (nascita), avvicinandoci sempre di più, in un eterno scorrere insieme, alla conoscenza inafferrabile per una solitaria singolarità.

Salvatore Rotondi

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