Si è spenta l’ultima stella del firmamento forense: Gustavo Pansini, avvocato insigne, cattedratico di chiara fama, conferenziere di portata nazionale e internazionale; ideologo del processo penale, quale Presidente, illo tempore, della Camera Penale di Napoli e primo Presidente dell’Unione Camere Penali italiane. Per uscire dal rituale urge marcare il senso della perdita di Gustavo Pansini a partire da quello che ha rappresentato per il Diritto e per l’Avvocatura.
Pansini è stato l’ultimo esponente della gloriosa Scuola napoletana del diritto penale che trova il suo fondatore in Francesco Mario Pagano. Le caratteristiche di quella Scuola erano: conoscenza storica e filosofica, rigore nell’esegesi della norma e spirito riformatore. I grandi giuristi napoletani furono tutti riformatori, da Pagano a Pessina, da Zuppetta a Marciano. Riformatori perché avvocati, fulgido esempio di perfetta fusione tra Cattedra e Foro. In Pansini queste caratteristiche brillavano in una magistrale e originale fusione tra il giurista, l’avvocato, il riformatore.

Come nasce l’ermeneutica giuridica di Gustavo Pansini? Qual è la sua genesi, la sua genealogia? L’ermeneutica giuridica di Gustavo Pansini trova il suo fondamento primo nel suo status di avvocato; la sua natura originaria è l’essere stato in primis avvocato; quella acquisita dopo è stata la cattedra. Il suo sentiero autentico, mai interrotto, è stato quello che va da difensore alla cattedra.
La sua esperienza comprendente l’ha vissuta nell’aula di giustizia; è lì che, con l’illustre genitore, sperimentava le sue letture; verificava la cultura della prova; studiava le prassi giudiziarie, la funzione e la regolazione delle fonti processuali. Ma soprattutto, sotto l’insegnamento paterno e oltre, imparava l’arte dell’interpretazione giuridica, e cioè gli a priori: il diritto di difesa e la prova.
Con questi antecedenti Pansini salì in cattedra. Ogni giurista ha i suoi modelli.
Per esempio, Franco Bricola non solo ha dato un rilievo fondante alle prassi giudiziarie, ma in tutte le sue opere, l’a priori di ogni collegare è stata la Costituzione come riferimento obbligato ed esclusivo. Franco Cordero, se si prescinde da quelle opere che più risentono della sua immensa erudizione e si pone attenzione alle sue opere più tecniche, come la Procedura penale oppure Tre studi sulle prove penali, è possibile verificare che la comparazione filologica, semantica, ermeneutica, tra il detto della vecchia norma e quello della nuova, è una costante.
Per Gustavo Pansini, invece, l’ermeneutica giuridica tra passato e presente normativo non è una costante, come avviene in Cordero, ma ha il carattere dell’effettività, e cioè della contingenza. A Pansini, in altri termini, interessava questo adesso della norma; egli voleva sapere se l’adesso della noma lede il diritto di difesa, e, se sì, allora e solo allora sorgeva in lui la necessità della comparazione testuale con la vecchia norma per denunciarne contraddizioni e anomalie.
È questa crociata per il diritto di difesa che egli ha vissuto come avvocato e che ha portato nelle Università per formare i giovani di oggi, lottatori della libertà della Toga per il domani. Si batté con tutte le sue forze per il nuovo Codice di Procedura penale lottando contro le forze conservatrici e nostalgiche che animavano parte dei giuristi e gran parte dei magistrati. Nelle sue due opere più famose, L’illusione accusatoria e La rassegnazione inquisitoria, il Maestro denunciava, già nel titolo, le ragioni del fallimento del Codice, demolito fin da subito dalla giurisprudenza che ne tradì lo spirito, l’ideologia e le finalità. Fu uno dei primi giuristi a denunciare le prassi disapplicative del Codice da parte di una magistratura che si opponeva a un processo penale accusatorio, democratico e liberale.
Come sarebbe potuto arrivare a queste conclusioni così pregevoli senza partire dalla sua esperienza forense?
Era il giurista ed era l’avvocato, e le due anime palpitavano all’unisono.
Fu uno dei pochi giuristi a comprendere l’importanza della legge sulla difesa d’ufficio e sulla difesa dei non abbienti. Scrisse di suo pugno persino una proposta di legge che rimase inascoltata. Era solito ripetere, nei convegni, che <<non si può concepire un processo di parti in cui la difesa sia solo apparentemente assicurata>>.
La sua battaglia per una cultura della prova che fosse veramente moderna lo portò, negli ultimi anni della sua vita, a scrivere la sua ultima, feconda opera: Le prove deboli nel processo penale. In quel suo ultimo lavoro di scienziato del diritto, partendo dal concetto di prova come trasmissione di sapere da un soggetto a un altro, il Maestro sottoponeva a un’attenta rimeditazione tutto il sistema delle prove proponendo, come suo solito, soluzioni originali e profetiche.

Non basta essere un grande oratore per essere un Maestro; non basta dominare la parola per essere una Guida dell’avvocatura. Maestro è colui che è portatore di una parola viva, di una parola – testimone, di una parola – traccia, di una parola che dà prova di sé. Maestro è colui che della parresìa fa la ragione della sua vita di avvocato. Quando si rese conto che le battaglie forensi richiedevano imperiosa la necessità di unità e identità dell’Avvocatura, Pansini decise di uscire dall’aula di giustizia, dalla sua cattedra e fondò, insieme ad altri, l’Unione delle Camere Penali italiane di cui fu il primo Presidente. Quando comprese che le battaglie forensi per libertà e per i diritti dovevano travalicare i confini dell’Italia, il Maestro fece un appello all’Europa, chiamando a raccolta tutti gli altri paesi per la tutela del diritto di difesa come bene universale che abbraccia tutte le geografie, facendo della nostra Avvocatura una sola Avvocatura. Fu questo il suo ultimo dono: la Camera Penale Europea. Giunti a questo punto, è legittimo domandarsi chi è il Maestro se non Pansini? Come si può sottacere l’aggressione subita da Pansini ad opera dei terroristi con ricovero in ospedale con prognosi riservata per tutelare la funzione della Toga? Come si può restare indifferenti di fronte alla risposta che il Maestro diede al Procuratore Armando Spataro quando affermò di non essere disposto a stare allo stesso tavolo degli avvocati: << …. Desidero che i banchi restino separati perché anche visivamente si percepisca che io avvocato sono il difensore della libertà>>?
È stato il Maestro che ha formato tante generazioni di alunni, il primo fu Ortensio Zecchino, dapprima avvocato e poi cattedratico insigne. Come tutti i grandi il Maestro conobbe momenti di avvilente solitudine, come quando, osteggiato nel suo Foro, fu costretto ad abbandonare la Camera Penale di Napoli per iscriversi a quella di Torre Annunziata. La sua presenza ai convegni di studio e a quelli dell’Unione Camere penali fu una costante fino a quando le forze lo sorressero. Compariva negli ultimi anni appoggiato al suo bastone gravato dagli acciacchi che non sembravano aver intaccato il suo ingegno, sempre lucido e fucina di idee sempre feconde e preziose.
Pansini ha onorato la nostra Avvocatura in ogni sua cellula. È vero che il sole dell’Avvocatura è tramontato ma nel suo cielo splende ancora qualche traccia di questo bagliore. Dobbiamo abituarci alla paura e alle vertigini dell’infinito.
Raffaele Esposito
Gaetano Esposito







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