
Nella attuale società dei consumi e della informazione la logica del prodotto, della “cosa”, dell’oggetto (tanto cara ai secoli scorsi), sembra aver perso sempre di più la propria ragione d’essere. In un’epoca dove tutto ciò che sembra contare, che sembra avere valore, possiede una natura digitale o digitalizzabile (quindi, ad oggi, una specie di impalpabile eco di realtà), categorie come Avere o Essere sembrano quasi superate? Personalmente ritengo di no, anzi: Avere ed Essere sembrano quasi mutare, in modo cangiante, l’uno nell’altro negli spazi-tempi virtuali e reali vissuti quotidianamente da ognuno di noi.
Molte delle conflittualità che segnano le relazioni tra individui sembrano difatti essere caratterizzate dal possesso di qualcosa (Avere) e/o dalla espressione/affermazione del proprio punto di vista (Essere) contrapposto a quello dell’Altro, inteso come nostro avversario o addirittura giudice della adeguatezza dei nostri comportamenti sociali. Ci si ritrova così, troppo spesso, a trasformare ciò che potrebbe configurarsi come un semplice confronto tra due o più individui a campali battaglie volte alla salvaguardia di presunti diritti oppure alla affermazione di doveri ai quali non ci si può sottrarre.
Per tutti quei professionisti che si occupano delle relazioni tra esseri umani, dalla loro cura alla risoluzione di conflitti come quelli tra coniugi, l’orizzonte sopradescritto può forse sembrare più che familiare. Il vissuto, poi, a volte può concretizzarsi in una vera e propria sensazione di impotenza, nonostante le leggi oppure la pratica clinica e/o professionale sembrano darci tutte le risposte a seconda dei casi che ci si vengono a presentare.
Occupiamoci allora di questo “pericoloso” senso di impotenza. È una sensazione, questa, più che sana innanzi ad almeno due esseri umani a noi completamente sconosciuti e quasi sicuramente in pieno conflitto di interesse nella loro relazione. Sottolineo comunque il senso di pericolosità di tale sentimento perché, non consapevolizzato, esso potrebbe condurci ad un processo di identificazione (Essere) tale da minare alla base le capacità professionali atte a raggiungere lo scopo per il quale si è stati contattati. Prima di tutto, quindi, occorre chiedersi: da dove proviene tale senso di impotenza? Perché nonostante l’accumulo di sapere (Avere) e gli anni di pratica professionale (Essere) mi sembra quasi che il mio obiettivo (qualunque esso sia) sembra non pienamente raggiungibile?
Nonostante tutto quello che possiamo dirci o dire, l’unica vera soluzione all’enigma di tale impotenza umana sembra essere solo una: l’Ascolto!
Ascoltare, stare in ascolto, silenziare la propria confusione e quella che ci viene gettata addosso dalla conflittualità altrui…in una sola parola: Silenzio!
Il riuscire a fare Silenzio nella confusione, nel Caos che regna nelle nostre frenetiche vite, dentro e fuori di noi stessi, richiama alla mia memoria il mito antico legato alla ninfa della montagna di nome Eco. Nel mito questa ninfa fu spinta dal padre degli dei ad intrattenere sua moglie Era con i suoi pettegolezzi (oggi diremmo fake news) per distrarla dalla sua infedeltà. Era, però, compreso l’inganno punì Eco togliendole l’uso della parola e condannandola a ripetere solo le ultime parole ad essa rivolte o che riusciva ad udire. Nel mito Eco viene rappresentata anche come innamorata infelicemente di Narciso poiché impossibilitata a confessargli i propri sentimenti; una impotenza, quella, che ebbe come conseguenza addirittura la consunzione di Eco che si prosciugò per le lacrime versate e la fine per annegamento di Narciso stesso per mano della ninfa Nemesi.
Il mito sembra quasi invitarci a riflettere sulle fantasie/pettegolezzi che fin troppo spesso raccontiamo a noi stessi ed all’Altro per non guardare in faccia alla realtà, alle difficoltà dell’essere in rapporti umani la cui prima caratteristica è limitare, rendere finito il nostro potere sulle cose che ci circondano: cioè, renderci mortali. Una mortalità, questa, che oggi rifiutiamo categoricamente per preservare troppo spesso la nostra onnipotente, solitudine perfezione (narcisismo); tutto questo per evitare di soffrire, di consumarci nelle nostre lacrime e sparire nella falsità delle immagini residue del nostro Io: cioè, da soli siamo divini.
Eppure, fare silenzio nella tempesta delle emozioni che ci travolgono quando siamo in relazione con l’Altro, gli Altri (i nostri clienti/pazienti), finanche noi stessi, è quello che potremmo definire con la frase “Avere pienamente il proprio Essere”, ovvero la capacità di conciliare quello che possediamo (Avere), la nostra più intima natura, quella si nasconde dietro le maschere residue dell’Eco delle nostre precedenti relazioni umane (iniziando da quelle con i nostri genitori), con la sua più concreta espressione (Essere) capace di affidarsi all’Altro, al suo giudizio, senza per questo rischiare di non essere Ascoltata perché incapace di esprimere i propri, più profondi sentimenti (anche se questi fossero negativi o figli del dubbio).
Nell’Ascolto vero, spontaneo, direi quasi analogico di noi stessi e degli Altri, potremmo così superare la narcisistica perfezione del solipsistico possesso di ciò che ci appartiene e di quello in cui possiamo rivederci, identificarci, per poi aprirci alla silenziosa possibilità di Appartenere, Appartenerci nella verità della pericolosa occasione di crescita nascosta dietro le relazioni umane, nella loro infinita e divina unicità, caratterizzata dall’essere un puro e semplice incontro, capace di superare i limiti della propria, perfetta solitudine.
a cura di Salvatore Rotondi