È rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, comma 1, e 27, commi 1 e 3, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis, della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per reati di cui all’art. 4-bis della medesima legge (Corte di Cassazione, sez. I Penale, ordinanza n. 9126/2019, depositata il 1° marzo 2019).
La Suprema Corte rimette alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario che esclude espressamente che possa essere concessa la detenzione domiciliare ai condannati per i reati ostativi ex art. 4-bis.
Una donna, condannata per due rapine (di cui una tentata) avanzava richiesta di misure alternative alla detenzione. Il Tribunale di sorveglianza di Firenze le negava e, con riferimento alla richiesta detenzione domiciliare, sulla base delle suindicate disposizioni penitenziarie, la dichiarava inammissibile. Ricorreva in cassazione la donna cercando di dare una lettura diversa del quadro normativo: la preclusione all’ottenimento della detenzione domiciliare “generica” sarebbe legata non al titolo di reato in quanto tale – sol perché ricompreso nel folto elenco dei reati ostativi del 4-bis – ma al ricorrere delle condizioni ostative da quest’ultimo specificamente previste in rapporto alla particolare categorie di reato.
Gli ermellini confermano che la declaratoria di inammissibilità di detenzione domiciliare è conforme al dato normativo e al diritto vivente, per il quale a nulla rilevano l’insussistenza di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Se il 4-bis prevede che i benefici penitenziari possono essere concessi ai detenuti e internati solo se sussistono le condizioni ivi descritte, le disposizioni che in relazione a specifici benefici – come la norma censurata – escludono i soggetti condannati per determinati reati ostativi, non avrebbero alcun significato se fossero da intendere riferite alle preclusioni già poste dall’art. 4-bis anziché al mero catalogo dei reati in esso indicati.
Tuttavia, in questo tessuto normativo, la previsione dell’art. 47-ter, laddove inserisce una presunzione “assoluta” di inidoneità della detenzione domiciliare ordinaria per i condannati di delitti ostativi sembra contrastare con l’art. 27, comma 3, Cost., laddove il percorso rieducativo presuppone una progressione trattamentale che mal si sposa con tale rigido automatismo.
La presunzione di pericolosità si manifesta come irrazionale ed in contrasto con lo stesso articolo 4-bis ove le diverse fasce di pericolosità contengono indici presuntivi di pericolosità “vincibili”: una prima fascia in cui sono inclusi i reati a matrice o a sfondo associativo, per i quali se si vuole accedere ai benefici penitenziari occorre acquisire elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; una seconda fascia in cui vi sono reati comunque allarmanti ma che la concessione delle misure alternative richiede, all’opposto, la mancata emersione di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti; per i delitti di terza fascia (quelli legati alla sfera sessuale e alla prostituzione) in cui come detto la presunzione di ostatività ai benefici può essere superata sulla scorta di una complessa valutazione sull’evoluzione della personalità del condannato, con una più lunga osservazione intramuraria (1 anno) e un programma specifico sotto il costante monitoraggio di una equipe trattamentale specializzata (come previsto dal comma 1-quater del 4-bis).
La valutazione di irragionevolezza dell’art. 47-ter, comma 1-bis, non era sfuggita allo stesso legislatore che nella delega, contenuto nella legge Orlando n. 103 del 2017, nello schema originario, era stata prevista la soppressione della norma censurata.
Peraltro i giudici di legittimità rafforzano la valutazione di irragionevolezza considerato che, nel caso di specie, la rapina è incluso in seconda fascia; per cui non vi è alcuna presunzione di immeritevolezza del condannato all’accesso del beneficio, ma soltanto maggiori cautele, temporali e istruttorie, alla concessione delle misure alternative (senza considerare che la rapina aggravata può in concreto, come nella specie, avere una ridotta offensività). Per cui la disposizione sotto la lente di incostituzionalità rappresenta una rottura con la filosofia che ispira lo stesso sotto-sistema del 4-bis.
La Suprema Corte rifiuta l’idea che il divieto assoluto della detenzione domiciliare ordinaria possa trovare le sue radici nella sua estraneità nel circuito della progressione trattamentale. La stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito che essa è partecipe a pieno titolo nella finalità di reinserimento sociale del condannato (n. 239/2014).
Proprio l’inserimento della detenzione domiciliare nel percorso rieducativo del condannato fa emerge altro profilo di irragionevolezza: il condannato per un delitto ricompreso nel 4-bis potrebbe essere ammesso, sussistendone le condizioni, all’affidamento in prova al servizio sociale, mentre gli è inibito l’accesso alla detenzione domiciliare nonostante questa misura abbia carattere maggiormente contenitivo e sia semmai maggiormente idonea a fronteggiare la pericolosità sociale eventualmente residua.
In sostanza, ad un condannato che abbia seguito una buona strada risocializzante – attraverso una progressione che vede la concessione del lavoro all’esterno, successivamente del permesso premio come prima finestra di libertà ove saggiare i risultati trattamentali; per poi continuare con la semilibertà quale misura contenitiva ma nella quale il condannato riacquista ampi spazi giornalieri di libertà – è costretto a vedersi interrotto tale percorso (che dovrebbe proseguire proprio con la detenzione domiciliare) a causa del divieto assoluto previsto dall’art. 47-ter comma 1-bis, laddove non si abbiamo i presupposti, in termini di eliminazione della pericolosità sociale e di ultimo step della scala rieducativa per accedere all’affidamento in prova al servizio sociale.
La parola passa alla Corte costituzionale che dovrebbe eliminare tale momento di incongrua rigidità della pena, in aperto contrasto con la finalità rieducativa che deve governare l’esecuzione penale.
a cura di Alessandro Gargiulo