
“…Dipende, da che dipende, da che punto guardi il mondo tutto dipende…”. Voglio iniziare questo mio articolo con il ritornello di una delle canzoni più famose di Jarabe de Palo dal titolo, appunto: “Dipende”. Addiction, infatti, è la parola inglese utilizzata in ambito professionale per indicare il processo/fenomeno che realizza forme generiche di dipendenza, da quelle comuni e socialmente accettate da alcol e sigarette, a quella definita qui “infernale” del gioco d’azzardo, più comunemente passata nell’immaginario con il termine “ludopatia”. Da questa riflessione, il resto del titolo che richiama gli elementi opposti da ognuno di noi appresi quando affrontiamo per la prima volta i cosiddetti “giochi sociali”: vincere o perdere. Ad oggi sembra quasi che le nostre vite divengano una qualche forma di esistenza oscillante tra le polarità del vincere e del perdere; una oscillazione che trova, come proprio contro altare emozionale, uno strano binomio psicologico nella Paura e nel Desiderio.
Ma andiamo per ordine: cos’è alla fine la dipendenza?
In ambito clinico, la dipendenza viene definita come una malattia caratterizzata da un coinvolgimento compulsivo in stimoli gratificanti (quello che qui abbiamo indicato con il termine “Desiderio”) nonostante le conseguenze avverse (che solitamente vengono avvertite attraverso il campanello d’allarme della “Paura”). Al di là dei numerosi fattori psicosociali, la patologia fondamentale che guida lo sviluppo e il mantenimento di una dipendenza viene ad oggi individuato in processi biologici indotti dall’esposizione ripetuta a stimoli di dipendenza (come ad esempio le massicce occasioni di comportamenti volti all’azzardo presenti nella nostra quotidianità). Pertanto, ci sembra così possibile individuare due proprietà caratterizzanti gli stimoli di dipendenza: rinforzo (aumentano cioè la probabilità di un’esposizione ripetuta ad esse) e gratificazione (ovvero la comune percezione di essere naturalmente positive, desiderabili e piacevoli). La dopamina, d’altronde, è riconosciuto come il principale neurotrasmettitore del sistema di ricompensa nel nostro cervello. Svolge, inoltre, un ruolo nella regolazione del movimento, emozione, cognizione, motivazione e sentimenti di piacere. Quasi tutto ciò che provoca dipendenza, direttamente o indirettamente, agisce quindi sul sistema di ricompensa del cervello, aumentando l’attività dopaminergica. Grandi scariche di dopamina si diffondono nel nostro cervello quando qualcosa che ci piace sta avvenendo…e non è detto che Perdere non possa produrre piacere!
I fattori di rischio ambientale ed individuale che inducono dipendenza (come ad esempio lo stress psicosociale, i disturbi di salute mentale come depressione, ansia, disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) o il disturbo post-traumatico) sembrano allora, secondo numerosi studi, interagire con la composizione genetica degli individui, le cui ripetute esperienze di vita di un certo tipo (la sensazione di “vincere” o quella di “perdere”) aumentano o diminuiscono la sua vulnerabilità alla dipendenza. Difatti, l’adolescenza rappresenta un periodo di vulnerabilità unica per lo sviluppo di una dipendenza. D’altronde, come la letteratura del settore ci insegna, non solo gli adolescenti hanno maggiori probabilità di iniziare e mantenere l’uso di droghe, ma una volta dipendenti sono anche i soggetti più resistenti al trattamento e più sottoposti a eventuali ricadute.
Dal punto di vista che qui si sta cercando di argomentare, il comportamento d’azzardo (che si realizza nella forma comune del gioco, dove è possibile collettivamente includere il concetto di fortuna o sfortuna…insomma, un infantile “non è colpa mia!”) diviene un agito personale sì, indotto dallo svolgersi di processi biologici interni certamente, ma comunque strutturato e provocato dall’essere perennemente immersi in una esperienza vitale dove desiderare e/o avere paura di vincere o perdere può fare la differenza nello sviluppo psicologico di patologie come i disturbi della sfera dell’umore, atti compulsivi o di ritiro dalle proprie attività e dalle relazione d’affetto.
Dipendiamo, alla fine, dal nostro punto di vista e dal valore emozionale ad esso associato. Ci piace vincere? Essere dei vincenti? Ammirati, finanche invidiati? E per cosa? Per le nostre qualità, le nostre competenze? E quali sarebbero? Il nostro Sé adolescenziale continua perennemente a ricercare, nelle esperienze giornaliere e relazionali, una risposta a queste domande che possa essere sentita come una ricompensa, una gratificazione! E se le risposte non arrivano? Ed allora forse è meglio desiderare di Essere dei Perdenti! Sì, perché perdere è più “facile” che vincere, un evento più facilmente raggiungibile, richiede meno domande e dona moltissime risposte tangibili esperienzialmente. Col tempo, le facili risposte divengono ciò che più si desidera (così come le facili conquiste di un denaro che non esiste, tranne che nella sua forma simbolica di numero su una ricevuta di giocata) e, allo stesso tempo, perdere diventa più gratificante e meno stressante che vincere mostrando a sé stessi ed a tutti quali sono le nostre reali capacità.

A volte, confrontarsi con le nostre Paure, ascoltarle senza necessariamente doverle eliminare, sembra essere l’unico modo da cui dipendono le Vere Vittorie, quelle incastonate nel motto delfico: γνῶθι σαυτόν (conosci te stesso)!