Alcune precarie note sul concetto di azione penale


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Il caffè (1764)

La letteratura penalistica  in quanto alla procedura nasce dal Tractatus de tormentis  di autore anonimo, dal Tractatus de maleficis  redatto nel 1286 da Alberto Gandino, e dal quattrocentesco omonimo opus di Angelo Gambiglioni;  s’abbevera poi  alla fonte di Argisto Giuffrédi (1535-1593)[1], nel Settecento all’opera di Tommaso Briganti avvocato e giureconsulto di  Gallipoli (1691-1762)[2], a quella dei riformatori napoletani e  dei pensatori piemontesi, fra  i quali ultimi Alberto Radicati conte di Passerano[3], secondo Piero Gobetti “il primo illuminista della penisola”, e degli intellettuali milanesi frequentatori dell’Accademia dei Pugni che animavano la rivista Il Caffè, fondata e diretta da Pietro Verri; non di meno,  è eretta come insegnamento autonomo soltanto col R.D. 30 settembre 1938, n° 652.

Orbene, all’interno della procedura risulta che non esiste l’idea di azione quale formula ricostruttiva universalmente valida, bensì ne esistono tante possibili formule quanti sono i sistemi processuali concretamente vigenti, giacché deriva da contesti sociali e ordinamentali dati, e quindi non è universalizzabile.

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, fin dall’inizio il tema è stato sviluppato attorno all’interrogativo se l’azione debba essere concepita come una  tra le possibili formule in cui si manifesta il diritto sostanziale, ovvero come diritto soggettivo autonomo. Interrogativo – è stato puntualmente osservato – soltanto in apparenza dottrinale, perché reca in sé la disputa circa i rapporti tra Stato e persona, ovvero, in ambito ristretto, tra le prerogative spettanti all’individuo in quanto membro di una data comunità statale e i meccanismi predisposti dall’autorità per la tutela delle situazioni giuridiche individuali.

Friedrich Carl von Savigny

È nell’800, il secolo delle pulsioni rivoluzionarie e insieme delle propensioni restauratrici, che, nel quadro degl’influssi politico-sociali sulle teorie dell’azione (qui, il pensiero va, fra gli altri, a Windscheid – fermamente antilluminista – per il quale non era piú bastevole la definizione di Celso: nihil aliud est actio quam jus quod sibi debeatur pesequendi), si registra la confluenza fra la teoria giusnaturalistica dei diritti innati (cara  a Rousseau) preesistenti allo Stato, e la teorica di Savigny che pure s’opponeva all’Illuminismo e ai suoi “miti”, tentando d’imporre l’idea dell’azione come puro strumento di tutela del diritto soggettivo violato.

 

Giuseppe Chiovenda

In Italia, la speculazione filosofico-giuridica di Chiovenda opera una decisa inversione di rotta rispetto alla prospettiva epistemologica: all’idea dell’azione come situazione giuridica soggettiva inerente al diritto leso, si sostituisce quella per cui l’intervento del giudice, ossia dello Stato, su una situazione giuridica controversa, cessa di essere una mera appendice del diritto soggettivo per diventare  un diritto a sé stante. Insomma, la costruzione del Chiovenda, com’è universalmente riconosciuto, rappresenta non soltanto il polo estremo – la terra di Thule –  della percezione della statualità del diritto e delle sue manifestazioni, ma anche  una traduzione in termini processualistici della teoria coattiva del diritto perfezionata da Hans Kelsen, ultima filiazione del positivismo giuridico.

Dunque, quando sulla scia delle ripetute critiche dei riformatori illuministi e dell’inevitabile mutamento dei rapporti generali tra Stato e persona, questa non piú intesa come suddito bensì come cittadino, la legislazione s’avvìa entro un processo di rinnovamento, e l’idea di azione penale si trasforma e acquista lineamenti normativi piú definiti, non piú come mero potere, ma diventa munus publicum e acquista l’attributo di obbligatoria.

Tuttavia, come vari studiosi hanno rilevato, il suo valore pratico è meramente strumentale, indispensabile a fini conoscitivi, ma di una conoscenza che per risultare utile deve andare oltre il “cos’è” dell’azione penale per il “com’è”, ossia come viene delineata nell’ambito dell’ordinamento in cui è immerso l’interprete.

Cosí nell’esposizione dottrinaria, l’azione penale viene dotata preliminarmente di alcuni attributi finalizzati a tratteggiarne i caratteri essenziali nell’ambito dell’ordinamento: obbligatorietà [art. 112 Cost.; art. 1 C.p.p. 1930, cd. Cod. Rocco], pubblicità, officialità e irretrattabilità.

L’intreccio tra obbligatorietà dell’azione penale e configurazione ordinamentale del PM era stato già attentamente considerato in seno all’ Assemblea Costituente, come un primo vero: Bettiol e Leone in quella sede, peraltro, non trascurarono di sostenere l’esistenza d’un legame sicuro fra Stato democratico e  ricezione del principio di obbligatorietà dell’azione.

Un atteggiamento politico e culturale derivato dal fatto che s’attribuivano al passato regime  manovre indebite nelle questioni penali da parte dell’esecutivo: in realtà, una preoccupazione non proprio fondata, giacché i  giudici furono lasciati tranquilli avendo il fascismo, per i suoi fini,  creato il Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

Al tirar delle somme, una questione che conosce un’attualità indubitabile, resa ancora piú evidente dai problemi che provocano l’incalzare della criminalità organizzata e quella dei ‘colletti blu’  [si cfr. la cd. circolare Maddalena], oltre che per riflessi  sul problema dell’indipendenza di esercizio della funzione d’accusa, da cui germina quello dell’ oggi invocata separazione delle carriere.

A guardare con attenzione, quindi, risulta che il nostro ordinamento – che recepisce la regola dell’obbligatorietà nonostante il contesto applicativo sia quello che tutti conosciamo – si espone, com’ebbe a rilevare Beria D’Argentine, a guasti peggiori della sola disapplicazione nella pratica del principio: il progressivo espandersi di comportamenti discrezionali finisce per corrispondere a una prassi sommersa in quanto ufficialmente illegale e quindi incontrollabile.

In altre parole, il principio della obbligatorietà, adottato per rendere trasparente il comportamento degli organi della Stato al momento dell’esercizio dell’azione penale, si trasformerebbe, come è stato scritto con prosa gonfia di barocchismi, in uno schermo mistificante, un apparato teatrale, dove nel retroscena gli attori cambiano maschere e costumi senza che alcuno possa notare qualcosa.

a cura di Salvatore Maria Sergio 

 

Note
1. L’opera di Argisto Giuffrédi intitolata Avvertimenti ai cristiani, da cui  si leva alta  la voce dell’A. contro la pena di morte, ebbe ampia circolazione manoscritta, ma venne data alle stampe soltanto nel 1896.
2. Risulterebbe estrinseca all’argomento di questo scrittarello il ragguaglio dell’astio sorto come una cortina ferrea fra i fratelli Verri e Beccaria, dopo il successo europeo del libro del marchese, reso in certo modo agevole dalla “scrittura” brillante, ma scaturito dal sodalizio intellettuale con gli animatori de Il Caffè, di cui i Verri erano mentori e guide, in cui si discuteva sulla giustizia penale europea. Non di meno, voglio ricordare almeno in nota un evento non privo di rilievo: quasi vent’anni prima che Coltellini, a Livorno, stampasse adèspoto e con la falsa indicazione “Losanna” il trattato di Beccaria (il gentiluomo milanese era intimorito dalla censura: altra edizione, sempre priva del nome dell’autore, è quella del 1766, di Aubert, anche lui tipografo in Livorno, ma recante il falso luogo di “Harlem”: soltanto dopo il successo europeo Beccaria rivelò d’esserne l’autore. Le vicende delle diverse edizioni è complessa e per molti versi non del tutto esplorata: si legga: ex plurimis, Sbardella, Beccaria/dei/delitti e delle/pene/con/note, La Città del Sole, Napoli 2005. Custodisco nella mia biblioteca un esemplare “pirata” dei Delitti edito a Milano col “commentario del Signor Voltaire”, proveniente da quella di mio nonno paterno), l’oscuro avvocato gallipolitano Tommaso Briganti,  con mente di giurista illuminato e di filosofo del diritto, aveva pubblicato nel 1747, a Napoli, per i torchi di Mazzola e Vocola una Practica criminale delle corti regie  e baronali del Regno di Napoli (una copia è conservata nella Biblioteca Storica A. De Marsico, in Castel Capuano, Napoli), fermamente  condannando la pratica della tortura come mezzo  di ricerca della prova e la pena di morte. L’opera di Briganti, dalla “scrittura” invero alquanto arida e tutt’affatto diversa da quella brillante del marchese di Bonesana, ebbe circolazione soltanto nel Sud della penisola, talché si spiega il quasi assoluto silenzio sul suo autore. Infine, voglio ricordare, al di là dei sopraggiunti furori apologetici, che per quanto concerne la pena capitale il marchese di Bonesana non fu precisamente “abolizionista”, tant’è che  qualche suo autorevole commentatore è stato costretto a definirlo “moderatamente abolizionista”. È sufficiente leggere il paragrafo XVI dei Delitti: “La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino diviene dunque necessaria …” [corsivo mio]. Sarà nel  1786 che l’arciduca austriaco, Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana, promulgherà la rivoluzionaria  legge   abolitiva della tortura e della pena capitale.
3. Sul pensatore   piemontese. si leggano le biografie di A. Alberti e (soprattutto) di F. Venturi, Einaudi, Torino 2005.
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