Quando non si è mai troppo piccoli per fronteggiare i giganti. Diritti umani e tutela dell’ambiente: intervista a Luca Saltalamacchia



LUCA SALTALAMACCHIA È UN AVVOCATO, PATROCINANTE IN CASSAZIONE, CHE SI OCCUPA DI DIRITTO CIVILE, NONCHÉ DI TUTELA DELL’AMBIENTE E DEI DIRITTI UMANI.HA SEGUITO INSIEME AD ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE ALCUNI CASI DI VIOLAZIONE DI DIRITTI UMANI PERPETRATE DA MULTINAZIONALI ITALIANE AI DANNI DI POPOLAZIONI LOCALI PER EFFETTO DI PROGETTI CHE HANNO UN FORTE IMPATTO AMBIENTALE.
Luca Saltalamacchia è un avvocato, patrocinante in Cassazione, che si occupa di diritto civile, nonché di tutela dell’ambiente e dei diritti umani. Ha seguito insieme ad associazioni ambientaliste alcuni casi di violazione di diritti umani perpetrate da multinazionali italiane ai danni di popolazioni locali per effetto di progetti che hanno un forte impatto ambientale.

Avvocato, la passione per la tutela dell’ambiente e dei diritti umani è alla base del suo lavoro. Secondo Lei, avvocati si nasce o si diventa?

«Entrambe le cose. Chiunque può diventare avvocato. Svolgere questa professione con passione implica avere un titolo, che tutti possono avere, ed una fiamma che brucia dentro. Quella non si può inventare, né si può acquisire: o c’è, o non c’è. Molti la hanno, ma purtroppo vive nascosta in qualche piega dell’animo; io sono stato fortunato ad aver incontrato diverse persone ed ad aver vissuto determinate esperienze che mi hanno aiutato a farla venire fuori.»

Oggi l’Avvocatura, in passato professione nobile e incentrata sulla effettiva tutela dei diritti della persona, risulta svilita da una globalizzazione che non lascia il posto all’autonomia – spesso anche intellettuale – del singolo. Questa sorta di “evoluzione” della professione forense rischia di divenire un’involuzione?

«Il problema è – a mio avviso – duplice: da un lato, siamo in tanti e molti colleghi fanno fatica ad avere un ritorno economico dignitoso. Dall’altro le ultime riforme della professione spingono molto verso un avvocato specializzato, con il risultato di parcellizzare il sapere e minare l’autonomia. Vi è poi un trend generale degli ultimi anni che porta a svilire il ruolo della nostra professione; siamo percepiti come gli imbroglioni, gli azzecagarbugli, gli squali che si avventano sul cliente per spolparlo. E devo dire che questa percezione sociale della nostra professione è dipesa anche dal cattivo esempio che hanno dato tanti avvocati, con il risultato di un decadimento anche morale generale. Tutto ciò rende difficile, soprattutto per un giovane avvocato, coltivare questa professione per quella che è: noi siamo coloro che intercettano bisogni, necessità, esigenze e le traduciamo in contenzioso se non è possibile risolverle in altro modo.»

E veniamo a quello di cui si occupa professionalmente: la tutela dell’ambiente e i diritti umani. Temi “caldi” oggi più che mai. L’andamento dei flussi migratori e ciò che è avvenuto di recente alla foresta amazzonica sono tragedie inenarrabili. Le perdite di “vite animali e vegetali” sono incalcolabili.

«Le devastazioni ambientali dovrebbero essere considerate un crimine contro l’umanità. Gli attacchi all’ambiente (si pensi agli incendi delle foreste, alle continue emissioni di gas serra che provocano il cambiamento climatico, allo sversamento di sostanze tossiche nei terreni, come nella Terra dei Fuochi, all’incontrollato uso della plastica) stanno letteralmente distruggendo il pianeta. Pur rappresentando solo lo 0,01% delle specie viventi, il genere umano ha già causato la perdita dell’83% di tutti i mammiferi selvatici e del 50% delle piante (cfr. studio del Weizmann Institute). Il problema è che gli inquinatori ed i distruttori dell’ambiente raramente vengono individuati e puniti a causa di norme poco efficaci e di connivenze politiche; basti pensare che i più grandi inquinatori al mondo sono le compagnie petrolifere…

Il paradosso è che se qualcuno versasse del veleno nelle falde acquifere di proposito sarebbe probabilmente trattato come un terrorista e processato; se lo fanno le grandi multinazionali, magari perché non hanno investito adeguatamente nella manutenzione degli oleodotti, non succede nulla! Si pensi addirittura al ruolo dei piromani nella foresta Amazzonica brasiliana, “incoraggiati” dalla politica anti-ecologica di Bolsonaro e dai grossi profitti che ricaveranno le grandi multinazionali alimentari nel riconvertire le aree strappate alla foresta in allevamenti o colture intensive.»

Il cambiamento climatico e le criticità connesse alle sue variazioni offrono un quadro disarmante in termini di danno ambientale. Le statistiche annunciano un futuro tutt’altro che roseo e  – giusto per fare un esempio, penso alla enorme quantità di microplastiche presenti nel mare. Abbiamo strumenti di tutela effettiva e reale?

«Il cambiamento climatico, di cui peraltro mi sto occupando proprio in questi mesi lanciando con altri colleghi ed alcune Associazioni la campagna “Giudizio Universale”, è la questione più urgente da affrontare. Potenzialmente, il cambiamento climatico è in grado di provocare milioni di vittime e di sfollati in poche decine di anni. Le acquisizioni della comunità scientifica internazionale sono spaventose; gli effetti devastanti del cambiamento climatico vengono ribaditi da tutte le Agenzie dell’ONU (quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha studiato gli effetti del cambiamento climatico sulla salute umana, o il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente che ha studiato gli effetti sull’ambiente, o i vari Comitati sui Diritti Umani che hanno indicato gli effetti sul godimento dei diritti fondamentali). Le temperature medie aumentano rapidamente e finora gli Stati non hanno voluto – tranne casi eccezionali, come il Costa Rica – contrastare efficacemente il fenomeno, continuando a consentire enormi emissioni di gas serra in atmosfera. Il problema delle plastiche è anche molto grave, ma sul punto vedo che le politiche stanno cambiando e presto si riuscirà a ridurre drasticamente l’uso della plastica ed a rimuoverla. E’ un problema gravissimo, ma non irreversibile. Il cambiamento climatico lo è, perché gli scienziati da tempo ci hanno spiegato che se l’aumento delle temperature medie sarà superiore a 2° rispetto all’era preindustriale, il pianeta entrerà in una condizione di non ritorno. Siamo già a circa 1,2°.»

In Campania il quadro ambientale non lascia molte speranze: il degrado del territorio e i livelli di inquinamento sono alti. Quali le cause reali, secondo lei?

«In Campania assistiamo ad un fenomeno paradossale. Viviamo nel paradiso, eppure facciamo di tutto per insozzarlo. È innegabile che al fenomeno dello sversamento di sostanze tossiche ad opera di criminali, quasi sempre legati alla camorra, va aggiunta anche la tendenza del singolo cittadino ad inquinare: dalla sigaretta buttata per terra mentre si cammina o addirittura in mare mentre si prende un po’ di fresco, al fazzoletto buttato dalla macchina in corsa, alle vecchie poltrone o vecchi elettrodomestici abbandonati sul ciglio delle strade periferiche, ai piatti di plastica lasciati dai gitanti. Tutti questi esempi, che potrebbero essere tantissimi, dimostrano una propensione a distruggere l’ambiente che è diffusa e riguarda l’uomo comune, non il camorrista che fa affari con i rifiuti. Il degrado delle nostre terre è quindi dovuto alla criminalità, alla politica che è incapace (o forse non vuole…) di adottare misure efficaci di tutela del territorio, ed anche a tantissimi cittadini incivili.»

Come legale ha prestato la propria attività per conto della popolazione sfollata a causa del progetto della Diga di Ilisu (Kurdistan turco) finanziata da una Banca controllata da Unicredit, della tribù di Maya Ixiles le cui terre erano minacciate dalla Centrale Idroelettrica di Palo Viejo (Guatemala) ad opera di una società controllata da ENEL, della popolazione sfollata a causa della costruzione della diga di El Quimbo (Colombia) ad opera di una società controllata da ENEL, della comunità di Ikebiri vittima dell’inquinamento del Delta del fiume Niger (Nigeria) ad opera di una società controllata da ENI. E nel maggio del 2017 ha introdotto per conto di questa comunità il primo giudizio in Italia contro una società controllante per devastazione ambientale commessa da una sua controllata all’estero. Può raccontarci una di queste esperienze?

Luca Saltalamacchia, avvocato della comunità Ikebiri e Godwin Ojo, direttore di Friends of the Earth Nigeria
(fonte: https://www.manitese.it/iniziata-la-causa-della-comunita-ikebiri-eni-compare-di-fronte-alla-corte)

«Ho avuto la fortuna di seguire questi casi, recandomi sui luoghi e conoscendo in prima persona i drammi delle popolazioni colpite da questi disastri. A titolo esemplificativo, vorrei parlare del caso della comunità di Ikebiri, una piccola comunità indigena che vive in Nigeria, nel Delta del Niger. Nei territori della comunità ci sono diversi pozzi e oleodotti della compagnia petrolifera italiana ENI, la quale opera in Nigeria attraverso una consociata interamente controllata e controllata, denominata NAOC – Nigerian Agip Oil Company – che ha iniziato le operazioni nel territorio della comunità Ikebiri nel 1969. Nell’aprile 1999, alcuni membri della comunità decisero di occupare alcune stazioni petrolifere di proprietà della NAOC per protestare contro il suo rifiuto di pagare il risarcimento per i danni derivanti dagli sversamenti avvenuti negli anni 1972, 1980, 1990, 1992, 1994 e 1999. Secondo la stampa e le ONG, il 19 aprile 1999 i soldati che scortavano il personale del NAOC hanno ucciso otto persone sparando, tra cui un bambino di due anni. Amnesty ha dichiarato che nessuna indagine ha seguito il massacro e nessuno ha pagato per questo crimine. Nell’aprile 2010, si è verificata un’altra fuoriuscita di petrolio dall’oleodotto della NAOC, che ha devastato le terre della comunità. Anche questa volta, il NAOC ha rifiutato di ripulire le aree e di risarcire i danni. Grazie all’associazione Friends of the Earth Europe e alla sua filiale nigeriana denominata ERA (Environmental Right Action), la comunità ha deciso di intentare una causa contro ENI e NAOC di fronte a un giudice italiano. Questo caso è stato il primo di questo tipo mai intentato in Italia. Era la prima volta che una comunità indigena faceva parte di un contenzioso di fronte a un Tribunale italiano ed era la prima volta che in Italia una società controllante veniva citata in giudizio per un’azione commessa da una sua controllata all’estero. Poiché non c’erano precedenti, non potevamo fare affidamento su alcun punto di riferimento. Per fortuna il Tribunale di Milano non ha accolto le tante eccezioni preliminari sollevate da Eni e NAOC decidendo di entrare nel merito. A quel punto, la NAOC ha deciso di transigere la lite. Questo giudizio, così insolito ed originale, mi ha consentito di passare diverso tempo in Nigeria e di incontrare tante vittime dell’inquinamento da parte di NAOC, anche in villaggi diversi rispetto a quello di Ikebiri. Un racconto che non potrò mai dimenticare è quello relativo ad un ragazzo che aveva fatto il bagno nel fiume; uscito fuori, si era avvicinato troppo ad un falò ed aveva preso fuoco. Per fortuna, ha rimediato solo diverse ustioni; ma questa storia spiega meglio di tante altre le condizioni in cui vivono le popolazioni locali: per loro il fiume è tutto, bevono quell’acqua, si lavano con quell’acqua, irrigano i campi con quell’acqua. E quell’acqua è piena di petrolio; ce n’è talmente tanto, a causa dei continui sversamenti, che l’ONU ha dichiarato il delta del fiume Niger uno degli ecosistemi più inquinati al mondo. Noi italiani abbiamo contribuiti sensibilmente, grazie ad ENI, a tale disastro.»

Può dirci il suo punto di vista rispetto all’approccio con cui la politica italiana affronta la questione “immigrazione” e le conseguenze?

«Negli ultimi anni la politica ha smesso di guardare al migrante innanzi tutto come ad una persona. Questo mi rattrista e mi indigna. Il fenomeno delle migrazioni è sempre esistito ed esisterà sempre; noi siamo un popolo nato per effetto di moltissime migrazioni. Oggi questo fenomeno spaventa, perché la politica è incapace di gestirlo; il risultato è un progressivo, lento ed inesorabile percorso di disumanizzazione secondo cui alcuni valori che ci hanno sempre identificato come comunità – quali l’accoglienza, la tolleranza, la solidarietà – vengono fatti passare come disvalori. Le vite vanno sempre salvate; i migranti vanno sempre considerati esseri umani. Poi è ovvio che il fenomeno va gestito; ma se non viene capito, temo che non potrà mai essere correttamente affrontato. Io sono stato sei volte in Nigeria ed ho visto con i miei occhi la devastazione ambientale ed il depauperamento delle risorse che le imprese occidentali stanno perpetrando in quella terra. Molti dei giovani che abitano i villaggi sono costretti ad abbandonare le loro terre; alcuni arrivano in Europa. In questi casi l’elemento principale alla base del percorso migratorio è lo sfruttamento e la devastazione dell’ambiente in cui vivono: gli Stati che consentono alle loro multinazionali questo scempio non possono girarsi dall’altra parte quando chi è dovuto scappare bussa alla loro porta. Inoltre, mi fa letteralmente inorridire il mezzo che viene utilizzato in Italia per contrastare il fenomeno: finanziare (con soldi pubblici) pseudo-governi libici affinché facciano il lavoro sporco di impedire ai migranti di partire o di abbandonarli in mare. I centri di detenzione che svolgono la loro attività anche grazie ai soldi italiani, sono dei veri e propri lager, come accertato da più parti, incluso dalla Magistratura italiana. La politica aggressiva verso le ONG, non sostituita dalla messa a disposizione di una alternativa, ha prodotto un notevole incremento di morti in mare. Il migrante non è più un essere umano; se morissero affogati tanti gattini, ci sarebbe una sollevazione popolare. Non ho nulla contro i gattini, ovviamente, ma trovo assurdo che tante persone abbiano perso completamente la loro umanità e restano indifferenti verso la morte di propri simili, spesso bambini. Io non mi identifico e non mi identificherò mai con i disvalori banditi da chi, avendo perso la propria umanità, vorrebbe de-umanizzare i migranti. »

A livello anche internazionale è evidente che la questione “immigrazione” alimenti il mercato nero. In che modo lo Stato po’ tutelare effettivamente il migrante che entra all’interno dei propri confini? E soprattutto, come tutelare effettivamente i migranti quando il numero degli stessi è superiore alle capacità di contenimento e di accoglienza dello Stato ospite?   

«Bisognerebbe capire in base a quali parametri si stabilisce il livello di capacità di contenimento e di accoglienza. Per gli Stati che hanno saccheggiato per secoli le terre di provenienza dei migranti e per chi fomenta le guerre che causano migranti questo numero dovrebbe essere illimitato. E’ una questione di giustizia. Invece di sostenere governi corrotti che consentono la depredazione delle risorse mediante multinazionali senza scrupoli, questi Stati dovrebbero impedire questo abuso. Si pensi che il Sudafrica è ricco di oro, diamanti, cromo, amianto, carbone e rame, la Nigeria di petrolio, gas naturale, carbone e stagno, la Namibia di diamanti e uranio, lo Zimbabwe di  oro, amianto, carbone, cromo, minerali di ferro e nichel, il Ghana di oro, bauxite e diamanti l’Algeria di petrolio, gas naturale, minerali di ferro, la Libia di petrolio, lo Zambia e la Repubblica Democratica del Congo di rame, cobalto, piombo e zinco. Da chi sono gestite tali risorse? Quanta parte dei proventi di tali gestione rimangono negli Stati di provenienza? A me il discorso degli Stati che pretendono di rubare – perché così va definita tale pratica – le risorse di un altro Stato fomentando guerre e mantenendo governi corrotti senza assumersi la responsabilità delle conseguenze di tale latrocinio, è un discorso ipocrita e non condivisibile. È chiaro che non voglio dire che bisogna accogliere tutti i migranti senza alcun progetto o capacità integrativa, ma penso proprio che gli Stati occidentali hanno tutte le caratteristiche per poter gestire il flusso dei migranti in maniera equa e costruttiva. Non è un problema di capacità, bensì di volontà. La Germania deve il suo boom economico anche al lavoro di milioni di migranti.»

Cosa sente di dire ai giovani laureati in giurisprudenza che intendono intraprendere la professione impegnandosi nella tutela dell’ambiente e nella difesa dei diritti umani?

Luca Saltalamacchia

«Che bisogna sempre lottare per i propri sogni e tenere sempre vive le proprie passioni. Ma dico anche che, prima di specializzarsi, è necessario imparare bene i meccanismi del nostro mestiere; per poter far ciò non c’è miglior palestra che abbracciare tanti e diversi rami dell’ordinamento. Un buon avvocato deve senz’altro amare il proprio lavoro ed essere preparato; a mio avviso, però, ancor prima deve saper guardare ai problemi giuridici con perenne curiosità intellettuale. Credo che il vero segreto per avere successo nella nostra professione sia quello di avere l’attitudine giusta verso le problematiche da affrontare. E tale attitudine può essere acquisita, a mio parere, soprattutto per effetto di una pratica che non sia monotematica.»

a cura di Argia di Donato

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