di Bruno Botti

Se ne sono andati insieme, in un luminoso giorno di primavera, in silenzio, forse stroncati dal nuovo nemico invisibile della nostra era, sicuramente privi degli onori che avrebbero meritato e del saluto di quanti gli volevano bene. Così ci hanno lasciato Salvatore Maria Sergio e Stefano Viglione.
Saranno commemorati, certamente, quando ritorneremo a vivere, finalmente. Le loro figure saranno tratteggiate da chi, assai meglio di me, saprà farlo, spero in una cerimonia pubblica che sappia rendere loro ciò che il nemico invisibile gli ha tolto.
La loro simultanea scomparsa, però, mi ha suggerito alcune riflessioni che sento di dover fare in memoria di una intera generazione di avvocati che, in questi ultimi anni, ha compiuto il proprio percorso terreno.
Il mio pensiero reverente va a Gigino Iossa, Giovanni Bisogni, Peppino Fabrizio, Emiddio Della Pietra, Aldo Cafiero, Eugenio Baffi, Angelo Peluso, Sebastiano Fusco, Mimmo Ducci, a Maurizio De Tilla, a Giuseppe Di Rienzo, a Tonino Annunziata, solo per citarne qualcuno.
Il loro valore è fuori discussione e sarebbe persino irrispettoso ricordarlo da parte di chi, come me, non ha altro titolo per farlo se non l’affetto smisurato che provavo per ciascuno di loro. Così come incommensurabile è stato l’amore che essi hanno profuso nella professione e l’enorme contributo alla crescita culturale della intera classe forense. A loro va la nostra incondizionata gratitudine.
Ma ad essi dobbiamo essere riconoscenti anche per qualcos’altro, forse ancora più importante, che in una prospettiva storica sento di dover ricordare.

All’inizio del secolo scorso c’erano i Giganti del Foro di Napoli: Alfredo De Marsico, in primis, e poi Giovanni Porzio, Enrico De Nicola, Enrico Altavilla, Giovanni Pansini, Amerigo Crispo, Giovanni Leone, Francesco Saverio Siniscalchi, Ettore Botti (la omissione della citazione familiare, da parte mia, risulterebbe ipocrita). Il loro valore resta scolpito nel marmo che adorna il Pantheon dell’avvocatura nel salone dei busti di Castelcapuano a perenne esempio per chiunque voglia cimentarsi con questa professione.
Nel dopoguerra giunse, poi, la generazione dei Maestri: Adriano Reale, Renato Orefice, Vincenzo Siniscalchi, Vittorio Botti (anche qui mi perdonerete la citazione). A loro si deve la istituzione di vere e proprie scuole forensi, fondate sulla tradizione orale delle proprie conoscenze e la trasformazione degli studi in veri e propri cenacoli nei quali le nuove generazioni di avvocati potessero apprendere i segreti della professione. Un salto di qualità importante che ha permesso la crescita e la affermazione di una nuova classe forense più moderna ed attrezzata. Il sapere giuridico tramandato attraverso la sperimentazione sul campo.
Era, quella, la generazione della guerra. Una delle cose che mio padre amava raccontarmi, è che, una mattina del 1945, si ritrovò nel cortile di Castelcapuano insieme ad un gruppo di giovani reduci dal fronte, con i vestiti sdruciti, pronti a sostenere l’esame di avvocato. Non erano colleghi, quelli, erano innanzitutto amici. E quella giornata non era la giornata degli esami ma quella del ritorno alla vita. Ci si riconosceva, ci si abbracciava, si ricordava chi non ce l’aveva fatta; perché quello non era un ordine forense, era una comunità. Ci si conosceva tutti, si parlava un linguaggio comune, c’erano regole non scritte che valevano per tutti e da tutti rispettate senza nemmeno che fossero codificate.
Quella era un elite, certamente, con tutto il carattere discriminatorio che ciò potesse comportare ma proprio il profilo elitario di questa grande comunità rendeva tutto più semplice. I meriti di quella generazione di avvocati sono indiscussi ma è altrettanto indiscutibile che il loro compito fosse agevolato dalla esiguità dei numeri e da una prospettiva francamente esclusiva dell’esercizio della professione.
Di li a poco le cose sarebbero cambiate. Arriva il boom economico e demografico degli anni sessanta e il Paese si trasforma, certamente in meglio. Fasce sociali sempre più ampie accedono a strumenti culturali più elevati e nasce in tutte le famiglie la voglia di riscatto. L’accesso alla professione forense diventa alla portata di tutti e questo, naturalmente, è uno straordinario sintomo di progresso sociale.
La professione, però, viene anch’essa travolta dal cambiamento: il numero impedisce il riconoscimento chiaro della figura del Maestro, cioè di colui che non aveva solo il compito di insegnare i segreti del mestiere ma anche e soprattutto di accompagnare l’ingresso dell’allievo in quella comunità fino a quel momento protetta ed impermeabile.

Ed allora, siamo giunti al punto: Salvatore Maria Sergio, Stefano Viglione, Aldo Cafiero, Emiddio Della Pietra e tutti gli altri grandissimi avvocati che ho ricordato al principio, sono proprio quelli che più di tutti hanno vissuto e subito questa transizione; straordinaria sotto il profilo sociale ma certamente traumatica sotto il profilo dell’esercizio dell’attività professionale. La trasformazione del modo di esercitare la professione di avvocato si è consumata sotto i loro occhi in modo così repentino come forse mai era avvenuto in passato.
Basti pensare solo ai mutamenti epocali avvenuti in questi decenni, per rendersi conto dell’impresa titanica che essi hanno dovuto affrontare: una radicale e strutturale modifica del codice, che spostava completamente la prospettiva dell’attività difensiva, fino ad allora basata su una attività di resistenza e demolizione oratoria delle istruttorie altrui, e che invece imponeva la necessità di cimentarsi con strumenti sino ad allora mai esplorati come la cross examination e le investigazioni difensive; il trasferimento fisico della propria attività da un luogo accogliente e familiare come Castelcapuano, che aveva protetto e cementato l’avvocatura per secoli, a quello gelido e tecnologico del Centro Direzionale, orientato in verticale, dove persino i rapporti umani diventavano assai più radi e difficili; il dilagare della tecnologia, che rendeva vulnerabile chiunque non avesse dimestichezza con l’informatica.
Insomma, un percorso professionale iniziato con il Cicerone e terminato con la PEC. Dal circolo intellettuale del cortile di Castelcapuano alla ressa degli ascensori del Nuovo Palazzo di Giustizia.
Eppure loro hanno resistito; forti degli insegnamenti del passato, hanno saputo traghettarci verso il futuro, mantenendo ben saldo il timone.

Allora, noi che siamo venuti dopo, non possiamo non volgere un pensiero di commossa gratitudine a chi, in questo doloroso percorso, ha lottato sempre fino all’ultimo istante della propria vita per mantenere alti i valori tradizionali della professione forense, gli ideali della comunanza ed il senso di appartenenza alla classe.
Se oggi, terminata questa terribile quarantena, noi potremo tornare ad abbracciarci nella piazza coperta, come amici prima ancora che colleghi, come se fossimo ancora nel cortile di Castelcapuano, lo dobbiamo anche alla tenacia di uomini come Sergio e Viglione che mai hanno perso di vista il senso più profondo ed autentico del nostro essere avvocati.
Bruno Botti