di Alessandro Gargiulo
La Corte costituzionale (non) risponde all’interrogativo posto dalla Sezione VI Penale della Cassazione (cfr. ordinanza Cass., Sez. VI Pen., 30 dicembre 2020, n. 37796, Pres. Fidelbo, Est. Giordano), individuando, al termine di una ricognizione complessiva del quadro normativo, una soluzione ermeneutica – trascurata, invero, dai giudici rimettenti – atta a neutralizzare gli asseriti profili di irragionevolezza dell’istituto in analisi.
Il processo a quo ha ad oggetto più episodi corruttivi per atto contrario a doveri d’ufficio, dei quali si era reso protagonista un luogotenente della Guardia di Finanza, accettando somme di denaro da due imprenditori, per omettere o ritardare controlli fiscali nei confronti delle loro società.
Ad esito del grado di merito nel quale all’imputato era stata applicata, su sua richiesta, la pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione, con condanna al pagamento delle spese processuali ed interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, ricorrevano per Cassazione i difensori di fiducia, denunciando, con unica doglianza, la violazione di legge nel determinare la sanzione accessoria irrogata e, contestualmente, chiedendo di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis c.p. – nella formulazione previgente alla novella del 2019 –in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione.
Le argomentazioni dedotte dalla difesa erano state convalidate dagli Ermellini stessi, che, in tema di non manifesta infondatezza, statuivano come per “dar luogo ad un «adeguamento individualizzato, “proporzionale”, delle pene inflitte con le sentenze di condanna», «sussiste di regola l’esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio» mentre “in presenza di sanzioni rigide, il «dubbio di illegittimità costituzionale» risulta superabile «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato», nonché sottolineando come la censura invocata rilevi “in una duplice direzione”, sia quella dell’automatismo e dell’indefettibilità dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici […] sia quella della fissità e perpetuità della sanzione […] profili «si saldano tra loro dando luogo ad un meccanismo sanzionatorio rigido che non appare compatibile con il “volto costituzionale della sanzione penale”».
In punto di rilevanza, poi, si evidenziava come non fosse possibile una scelta di diritto vivente compatibile con la Carta, in presenza di un automatismo che non sarebbe escluso neppure con il riconoscimento delle attenuanti generiche, che non comporterebbero una diminuzione della pena principale tale da escludere la sanzione accessoria in questione.
Intervengono nel giudizio di costituzionalità sia la difesa dell’interessato, con atto adesivo ai motivi espressi con l’ordinanza di remissione, sia la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che insiste, invece, per la declaratoria di inammissibilità delle due questioni sottoposte al Giudice delle leggi.
Da un lato, infatti, non sussisterebbe il denunciato automatismo, ben potendo il giudice di merito derogare all’interdizione perpetua ai sensi del c.d. degli introdotti artt. 444, comma terzo-bis e 445, comma primo-ter, c.p.p., applicabile, ratione temporis, al procedimento principale; dall’altro, osterebbe alla richiesta pronuncia il limite della discrezionalità del legislatore, superabile – anche secondo la sentenza costituzionale n. 222 del 2018 – solo in presenza di pene manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità della condotta e qualora vi sia un’unica soluzione costituzionalmente vincolata capace di sostituirsi alla previsione dichiarata illegittima.
La Corte – con motivazioni parzialmente difformi da quelle sostenute dall’Avvocatura generale – dichiara inammissibili le questioni di legittimità descritte dall’ordinanza della VI Sezione Penale in ordine alla tenuta dell’art. 317-bis c.p. (nella formulazione ex c.d. artt. 5, legge n. 86 del 1990 ed 1, comma settantacinquesimo, lett. e), legge n. 190 del 2012).
Il Collegio approda a tale risultato valorizzando, in effetti, un argomento espresso della difesa erariale, ma correggendone la lettura.
In specie, mette in rilievo come non si sia consolidato un preciso indirizzo di legittimità circa l’operatività delle nuove disposizioni processuali non solo al c.d. patteggiamento ordinario, ossia che richieda di applicare una pena inferiore ai due anni di reclusione, ma altresì al c.d. patteggiamento allargato, qual era quello promosso – e poi definito – per il condannato.
Tale incertezza, però, non può salvare l’ordinanza di remissione, che, tralasciando qualunque passaggio in ordine a tale dilemma, non prende posizione e, pertanto, non tratteggia in quali termini, a questo proposito, non residui una lettura costituzionalmente orientata dell’impianto riformato dei codici, sostanziale e di rito.
Conseguentemente, impedisce di attivare quel supporto interpretativo autentico che, provenendo da organo estraneo al potere legislativo, deve risultare quale supplenza a lacune incolmabili, intervenendo esclusivamente come extrema ratio.
La pronuncia in commento, pur non modificando l’esegesi dell’assetto legale vigente, fa luce su un aspetto che non era stato colto nelle fasi precedenti, rimarcando una questione – la derogabilità dell’interdizione perpetua per patteggiamenti allargati relativi a taluni delitti contro la Pubblica amministrazione – che dovrà esser risolta dagli interpreti e, per altro verso, offrendo una chiave di ragionevolezza che potrà consentire, sin da subito e anche in quelle ipotesi, di meglio rapportare la pena accessoria al fatto commesso.
Alessandro Gargiulo