a cura di Raffaele Esposito
Come parlare di Salvatore Maria Sergio, un ingegno così poliedrico, un maitre à penser che ha percorso vari territori del sapere?
Dalla dogmatica giuridica, dalla filosofia del diritto, dall’ermeneutica giuridica, dal diritto musulmano (era laureato summa cum laude in diritto musulmano); dagli studi di grammatica araba e del pensiero arabo (fece esame di grammatica araba ed era stato alunno del prof. Roberto Rubinacci, studioso di islamistica di fama mondiale, esegeta del De Interpretatione aristotelico) agli studi di critica letteraria (era dotto in letteratura araba, francese, spagnola, inglese, americana); senza trascurare la linguistica generale, la semiotica, la storia patria.
Fu scrittore, saggista, oratore raffinato (vincitore del premio di eloquenza Nicola Amore); relatore a congressi internazionali di islamistica; pittore e studioso della storia dell’arte; scacchista, schermidore e tante altre cose.

Un vero e proprio Odisseo della cultura, il Leon Battista Alberti dell’Avvocatura.
Fu avvocato insigne e ad un tempo di un’originalità singolare.
Qual era lo spessore e la latitudine del suo ingegno come difensore?
Salvatore Maria Sergio compariva in aula come un duellante, e, con aria di sfida, chiedeva al PM, al giudice, alle parti: chi di voi vuole competere con i miei saperi?
Indossava la toga con una solennità testamentaria, e, in primis, sottoponeva a libertà vigilata la contestazione fatta all’imputato; la faceva oggetto di decostruzione; la scomponeva nei suoi elementi costitutivi e tormentava i suoi contraddittori con una serie di interrogativi che postulavano la trasversalità dei saperi: qual è la pertinenza di questa proposizione?
E con un pathos della distanza risaliva al concetto di pertinenza citando Benveniste che caratterizzava la pertinenza come raffronto, comparazione, mandando alla deriva tutte le parti del processo.
Come nasce, signori, questa parola? Quale tenuta testuale, logica, grammaticale, semantica, la legittima?
Cosa significa questo termine? Qual è la grammatica di questo termine?
Perché, signor giudice, questo termine e non un altro?
Con quale dominio delle differenze semantiche ha proceduto il PM nell’articolare la contestazione?
Quali sono le sue letture?
E così, con la sua parola sovrana, era il correttore della contestazione citando gli analitici aristotelici, la grammatica di Port Royal, la scuola linguistica di Praga e tante altre fonti che mandavano i suoi contraddittori ad una deriva senza riva.
Senza voler misconoscere l’intervento magistrale del Procuratore Generale Francesco Iacoviello nel ricorso di Dell’Utri sulla contestazione e sulla necessità che la stessa debba avvenire nei termini più chiari e precisi possibili; oso pensare che il mio dotto amico, Salvatore Maria Sergio, anni prima sottoponeva giorno per giorno la contestazione ad un vero e proprio sondaggio geologico facendone l’archeologia e la genealogia nei termini foucaultiani nelle quali pullulava tutta la storia delle idee, dell’episteme, da Aristotele ai giorni nostri.
In principio erat defensor (Salvatore Maria Sergio); in secundo actor (Iacoviello).
Il nostro amico decostruì il processo penale con la sua arringa che era costituita dai suoi prolegomeni al fatto; per lui urgeva, nel suo intervento difensivo, una domanda in tutta la sua ampiezza: quali sono gli a priori di fondazione che portano al fatto e l’orientano?
L’arringa era per lui un’ ars combinatoria secondo i modelli logici di Leibnitz.
Il processo era per lui non un testo ma un architesto.
Lettore di Dumézil, studioso geniale dei miti indoeuropei, recepì in toto il suo insegnamento: bisogna porre fiducia prima nelle parole e poi nelle cose.
Prima la parola e poi il fatto; rectius più che i fatti le connessioni.
Ricordo una delle tante volte in cui mi trovai suo codifensore, gli ricordavo il fatto.
In un noto processo di criminalità organizzata presieduto da Romeres, Salvatore citò Montesquieu, Tocqueville, De Maistre, Rousseau, Vico, il suo amico Rachid Boydjedra; ad un certo punto il Presidente gli domandò: “e le conversazioni che sono tutto il processo, chi le tratta?” Rispose: “Raffaele Esposito”.
La verità è che Salvatore Maria Sergio faceva suo il celebre insegnamento di Nietzsche: “non esistono fatti ma solo interpretazioni”.
Amava lo spazio e voleva sospendere il tempo.
Amava lo spazio che costituiva i territori dei suoi saperi, della libertà della toga; amava lo spazio perché, influenzato da Cervantes e da Borges, era convinto che il sapere andasse cercato solo nei libri e che l’Avvocatura e la vita stessa fosse, nella sua totalità, un solo libro, così come scrive nei suoi taccuini di viaggio dei quali custode autentico è stato il suo compagno di viaggio, Franco Russo, suo antico allievo, oggi avvocato di spessore e di vasta cultura.
Nell’aver privilegiato lo spazio era in compagnia di De Marsico, Cassinelli, Mattia Limoncelli, Titta Maria, Maurice Garçon ed altri.
Per lui la storia dell’avvocatura aveva avuto, per dirla con Husserl, “grandezze temporali” che resistevano all’erosione del tempo e che, a suo avviso, si arrestavano con la morte di De Marsico, Loasses, Reale, Vittorio Botti, Orefice.
Fu oratore raffinato e studioso accorto dell’eloquenza greca e latina nonché dell’eloquenza della scuola dei Gesuiti, penso a Etienne Binet il celebre autore degli “Essay”.
Con la scomparsa di Salvatore Maria Sergio si spengono i grandi pensieri dell’Avvocatura.
Durante l’epidemia il più grande studioso della retorica: Marc Fumaroli, accademico di Francia, rispondendo ad una lettera di un avvocato, scriveva, prima di morire:
“Questa epidemia ha distrutto le nostre vite e il nostro pensiero. Oggi parla solo la scienza medica. Solo gli scienziati sono protagonisti di questo periodo storico. Dove sono le scienze umane? Dove sono gli oratori?”.
E citava gli oratori della Cappadocia, della scuola di Bisanzio.
Ebbene sull’altro versante: Salvatore Maria Sergio, ricoverato due volte in ospedale, in piena epidemia, si faceva la prima volta dimettere immediatamente dall’ospedale, a suo rischio e pericolo, perché per lui era la parola la vera lotta all’epidemia; la seconda volta chiese al suo corpo, ormai un ricordo della vita, di sospendere il suo corso, voleva ancora una volta che la parola fosse l’ultima a morire, ma il suo corpo crollò per sempre.
Si spense così l’homo sapiens loqui e si oscurò con lui l’ultima stella dell’avvocatura.
Raffaele Esposito
“Nulla mi è estraneo di tutto ciò che esiste”. Sulla base di questa Massima, che obbliga ad essere al servizio della conoscenza, è facile essere Servitore degli altri, senza esserne “servo’.