di Raffaele Esposito*
Odio questa nostra avvocatura così povera di spirito, di amicizia, di accoglienza; dove regnano incontrastate gelosie e piccole paranoie.
Diego viveva in piena solitudine, la sua anima era attraversata da mille coltelli, sofferenze fisiche e psichiche; compariva in Tribunale, con il suo corpo indifeso, e cercava, con occhi desideranti, l’amicizia, una parola di speranza e raccoglieva solo un raddoppiamento di solitudine, un pathos della distanza da parte di tutti noi, poveri di umanità, sempre uniti, invece, in un patto di servitù con la magistratura.
Ma chi è l’avvocato?
Quello che, baciato dal destino, non conosce sofferenza e arringa il giorno dopo in un’aula di giustizia con un pathos dell’atteggiamento; o Diego Abate che, con un corpo che era un solo dolore, riusciva a trovare tra infiniti tormenti la forza di essere ancora avvocato esaltando la toga con intelligenza e con preparazione giuridica?
Amo la parola vissuta, figlia del dolore e non quella da rituale.
Se l’avvocatura non ha un oggi, né un domani; se è incapace di recepire l’eloquenza della libertà della toga dei nostri patres, siamo almeno uniti, in memoria di Diego, in un diritto di resistenza in attesa di un avvocato guida, che ancora non è qui, che ci aiuti a uscire dalle tenebre nelle quali ci siamo cacciati.
Raffaele Esposito
*avvocato penalista del Foro di Napoli