di Salvatore Rotondi
“Niente basta a quell’uomo per il quale ciò che basta sembra poco.”
(Epicuro)
“L’avarizia è sicuramente uno dei sintomi più attendibili di una profonda infelicità.”
(Franz Kafka)
“L’avarizia è l’unico vizio che, agli occhi dei discendenti, si trasforma in una virtù.”
(Martin Held)
“C’è solo un modo di buttare via il proprio denaro: non spenderlo.”
(Mirko Badiale)
“L’avarizia comincia dove finisce la povertà.”
(Honoré de Balzac)
“I ricchi non ci deliziano tanto per quanto possiedono, quanto ci tormentano con le loro perdite.”
(Dick Gregory)

Il Popolo degli “Avari”
Questa volta iniziamo l’articolo con una curiosità: sapevate che, nell’epoca medioevale europea, è esistito un popolo chiamato “Avari”? Essi, noti anche come Obri, nelle cronache della Russia, come Abaroi o Varchonitai (in greco antico: Βαρχονίτες, Varchonítes), o pseudo-Avari nelle fonti bizantine, furono un’alleanza di diversi gruppi di nomadi eurasiatici di origini sconosciute stanziatisi in particolare sulle rive balcaniche del Danubio, dove costituì un khanato che duro dal VI al XI secolo. Probabilmente anche per questo furono conosciuti soprattutto per le loro invasioni e le distruzioni causate nelle guerre con i bizantini, avvenute dal 568 al 626. Furono fra l’altro loro a incalzare i Longobardi, portandoli a trasferirsi in Italia, riuscendo così ad accumulare grandi ricchezze, grazie ai tributi con cui l’Impero d’Oriente li teneva a bada, e ai ricavi delle loro scorrerie. Quando Carlo Magno poi mosse loro guerra, essi si sciolsero tra le altre popolazioni locali. Alla fine, Carlo Magno recuperò il loro tesoro, accumulato in tanti anni di scorribande e se lo portò ad Aquisgrana trasportandolo, secondo la leggenda, attraverso l’uso di ben quindici carri.
Da questa storia sembra proprio (ma non ci sono prove a riguardo, oltre ad una assonanza da pensiero comune) che il termine avarizia derivi dal comportamento del popolo sopradescritto. Niente di più falso: etimologicamente questo termine può essere fatto invece derivare dal latino avarus, derivato anch’esso del verbo avère, il quale bisogna notare si differenzia dal verbo habère (dal quale deriva il nostro avere), ed avente come significato quello di “bramare, desiderare ardentemente”. Secondo una certa assonanza, tale termine lo potremmo inoltre associare al termine di avidus, da cui però si discosta solo per una differente formazione.
l’Avaro, quindi, si mostra a noi sia bramoso, desiderante ardentemente e, allo stesso tempo, avido così come tirchio, spilorcio e restio a dare ciò che è in suo potere, ad esprimere.
Per associazione mi ritorna in mente la parabola evangelica dei talenti (narrata nel Vangelo secondo Matteo 25,14-30), in cui Gesù vuole insegnare che le nostre capacità non devono essere tenute nascoste come fa il servo a cui è stato consegnato un solo talento ma invece, pur senza inorgoglirci, devono essere messe a servizio di tutti, per la gioia nostra e degli altri. Proprio per questo, l’avaro ci appare come un individuo meschino, con una vita arida e incolore, capace di ogni bassezza, insopportabile alla società in cui vive. La sua figura è avvolta in ogni tempo da biasimo e condanna, ironia e disprezzo, poiché espressione prima del vizio umano chiamato Avidità. Una fisionomia, quella descritta, che ha le sue radici nel mito e nelle sue forme più recenti: Creso, Euclione, Shylock, Arpagone, Ebenezer Scrooge, Paperon de’ Paperoni.
L’Avarizia
Avarizia quindi, come il termine Avaro, è proteiforme in quanto, come abbiamo detto, può indicare diverse cose, in relazione ai tempi e ai luoghi; allo stesso tempo, però, mantiene alcuni elementi costanti legati al desiderio di possesso, all’accumulo, alla conservazione di capacità (come l’intelligenza, la conoscenza, etc.), di beni (come il tempo e/o il potere) e di oggetti materiali (come strumenti, denaro, etc.), al di là della loro fruizione e godimento, in quantità sempre maggiori, attraverso i quali si perde la propria libertà e di cui si diviene così schiavi (pensiamo agli accumulatori compulsivi) poiché arrivano essi stessi a definire l’individuo e senza i quali egli non è più nulla.
L’avaro, infatti, dice di sé che la radice del proprio essere è posto solo in ciò che egli possiede; in tal senso, pensiamo allora alla grande paura che ha acquisito nel tempo una malattia come l’Alzheimer, la quale toglie a chi ne è affetto molti dei suoi ricordi, di ciò che definisce nel pensiero comune la nostra identità individuale…ma è proprio così, oppure noi possiamo definirci solo a partire da ciò che facciamo, qui ed ora, in ogni momento della nostra esistenza?
Cercando di dare una risposta a tale domanda, nel tempo molti antropologi hanno cercato di dimostrare, con diversi studi, che l’ossessione della fortuna economica è difatti associata al bisogno di sicurezza e, in particolare, alla paura del futuro e alla paura della morte. In effetti, psicologicamente, l’incertezza e la paura di perdere ciò che si possiede portano, non solo chi è affetto dall’Avarizia, a tentare di difendere sé stesso attraverso l’insensibilità del cuore, l’inquietudine nel possesso, la violenza nell’appropriazione, il furto e anche il tradimento, senza parlare della tristezza che anticipa e consegue tutti questi gesti.
L’Avaro nella letteratura

Due delle rappresentazioni più riuscite ed emblematiche, nella storia della letteratura, di tutto quanto fino ad ora illustrato sono rintracciabili ne “L’Avaro” di Molière e ne “Il Canto di Natale” di Dickens.
L’Avaro (L’Avare ou l’École du mensonge) di Molière è una commedia rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1668 dalla “Troupe du Roy”. In essa, l’autore affronta il tema dell’avarizia scellerata, della paura di essere derubati, insieme a quelli dei matrimoni combinati e del gioco d’azzardo. Nella commedia, l’avaro in questione è Arpagone, il quale spera che sua figlia Elisa si sposi con un uomo ricco, ma vecchio di nome Anselmo, il quale accetterà la ragazza anche senza dote. La ragazza in realtà è però innamorata di un altro ragazzo di nome Valerio, il quale è in realtà un povero squattrinato. La scena si apre proprio con i due ragazzi che discutono delle controversie relative alla loro storia d’amore. La giovane, infatti, è preoccupata che suo padre, ancora all’oscuro dei sentimenti dei due, quando verrà a conoscenza dei fatti, non le permetterà di sposare il suo amato, privilegiando invece qualcun altro. Valerio a tal proposito le ricorda che ha accantonato le sue nobili origini facendosi assumere dal padre di lei come domestico, esclusivamente per vederla e per accattivarsi nel tempo l’amicizia, la fiducia e il rispetto del padre, al fine di presentarsi come validissimo candidato per le nozze di lei. Riecheggiano le note di drammi shakespeariani come quello di Romeo e Giulietta o del Mercante di Venezia, eppure Molière riesce con la sua prosa ad essere più leggero e assonante con le sensibilità della sua epoca. Arpagone, infatti, riesce ad essere la personificazione dell’avaro integrale, non solo geloso di quello che ha, ma smanioso di accrescerlo; la sua stessa sensualità, nel corso della storia, diviene difatti cupidigia di possesso. Il suo nome harpăgo (-onis), nel senso figurato di “arraffatore”, è d’altronde già presente in Plauto, e un avaro di nome Arpago si trova altresì nell’Emilia di L. Groto, di cui il Molière si era già valso per l’Étoardi. In sintesi, possiamo ritenere che, ne “L’Avaro”, Molière riesce a fare quello in cui i suoi contemporanei (e qualche altro grande autore del passato) hanno fallito: aprire il proprio cuore e avere fiducia nei sentimenti. Egli, infatti, non cerca il particolare nelle cose, ma nelle persone, andando ad indagare ed osservare ciò che in esse si agita. Proprio per questo motivo, l’Avaro qui descritto non si presenta più come un profilo, una maschera fissa, dove si cerca solo il carattere burbero e tirchio, ma anche la rappresentazione di un padre che nutre sentimenti sì di amore solo per i soldi, ma anche di rispetto nei confronti delle scelte altrui (il matrimonio dei figli).
Il Canto di Natale (A Christmas Carol, in Prose. Being a Ghost-Story of Christmas), noto anche come Cantico di Natale, Ballata di Natale o Racconto di Natale, è invece un romanzo breve di genere fantastico del 1843 di Charles Dickens (1812-1870). Tale racconto è altresì anche il più importante della serie dei Libri di Natale (The Christmas Books), una serie di storie che include anche Le campane (The Chimes, 1845), Il grillo del focolare (The Cricket on the Hearth, 1845), La battaglia della vita (The Battle for Life, 1846) e Il patto col fantasma (The Haunted Man, 1848). Si può facilmente sostenere che tale opera rappresenta pienamente uno degli esempi di critica che Dickens avanza alla società che egli vive. Sulla stesura del racconto pesa, difatti, l’esperienza di sofferenza vissuta dall’autore durante la sua infanzia, quando per pagare i debiti del padre fu mandato a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, dove subì per sei mesi i maltrattamenti del padrone. Nonostante questo, a una prima espulsione del ragazzo dalla fabbrica, sua madre insistette affinché il proprietario se lo riprendesse: questa cosa Dickens non gliela perdonò mai. Il racconto comunque narra della conversione dell’anziano e avaro banchiere Ebenezer Scrooge, Il quale odia fortemente il Natale, ritenendolo soltanto una perdita di tempo ed un giorno in cui, per la festività, non si può lavorare e guadagnare soldi (rimprovera Dio stesso per il riposo domenicale che intralcia il commercio e il guadagno). Egli così viene visitato nella notte di Natale da tre spiriti (il Natale del passato, del presente e del futuro), preceduti da un’ammonizione dello spettro del defunto amico e collega Jacob Marley, morto esattamente sette Vigilie di Natale prima. La rappresentazione del collega di Scrooge è particolare: scoperte le bende per mostrare il volto, gli cade la mascella dal viso; intorno alla vita, poi, porta una catena forgiata di lucchetti, timbri, portamonete, assegni e banconote, tutte cose che, secondo la sua stessa ammissione, lo hanno distolto dal fare del bene agli altri, accumulando denaro solo per sé. Il rimpianto per aver vissuto chiuso nel proprio egoismo lontano dalle persone che amava e che lo amavano costituisce così la sua pena eterna, una dannazione che lo costringe a vagare senza poter vedere la luce di Dio. Non mi dilungherò, qui dirò solo che la storia comunque finisce bene, con la redenzione di Scrooge (fantastica la trasposizione animata Disney del 1967 dove compare zio Paperone proprio nei panni di Scrooge).
Superare l’Avarizia
Vorrei concludere proprio con una suggestione derivata da Dickens. Infatti, il concetto di fantasma mi ha sempre affascinato: un qualcosa che c’era ma ora non c’è più; il tratto di un passato che ricorda l’eventualità del ripresentarsi nel futuro, al di là dello stesso tempo in cui è vissuto. In un certo senso, il fantasma si pone a Noi, come le Stelle e le Costellazioni, in modo evocativo, come l’onirico (il sognato): precognizione, al di là del tempo e dell’essere, di ciò che era e che non è più nonostante potrebbe nuovamente essere.
Proprio per questo, onde superare l’Avarizia che ci porta a perdere il contatto con la nostra umanità, con la nostra appartenenza al flusso di Esistenze che ci precede ma anche a quelle che ci seguiranno, emerge per Noi la necessità di mantenere ben presente, alle nostre menti, quello che possiamo perdere accumulando e quello che possiamo acquisire condividendo con l’Altro da noi stessi, per così portarci a raggiungere vette e competenze che l’individuo da solo può solo immaginare ma che l’Umanità, insieme, può di certo conquistare.
a cura di Salvatore Rotondi