di Salvatore Rotondi
“Ci vuole un minuto per notare una persona speciale, un’ora per apprezzarla,
un giorno per volerle bene, tutta una vita per dimenticarla.”
(Sir Charlie Chaplin)
“Ho imparato che non posso esigere l’amore di nessuno.
Posso solo dar loro buone ragioni per apprezzarmi ed aspettare che la vita faccia il resto.”
(William Shakespeare)
“Senza fede è colui che dice addio quando la strada si fa buia.” (J. R. R. Tolkien)
“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia.
Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.”
(Khalil Gibran)
“La speranza è l’ultima a morire, perché moriamo prima noi.”
(Emanuela Breda)
“L’uomo non è mai così vicino agli dei di quando fa del bene al proprio prossimo.”
(Cicerone)
“La carità è il solo tesoro che si aumenta col dividerlo.”
(Cesare Cantù)
Inter-connessioni
È indubitabile, seguendo tutta la storia del pensiero umano, che ogni singolo essere umano risulta essere collegato, per vari gradi di in-ferenza e inter-ferenza, agli altri essere umani in modi così complessi da esserne di difficile comprensione e descrizione. Qualcosa, però, sembra connetterci tutti l’uno all’altro, al di là di qualunque forma di divisione…un qualcosa che i poeti hanno indicato, al di là della stessa loro conoscenza, con la parola Amore. Tale constatazione riporta alla mia memoria alcune scene del film “Interstellar” (2014) di Christopher Nolan, nel quale l’Amore sembra connettere le persone e i loro destini al di là dello spazio e del tempo (pensiamo alla connessione tra Padre e Figlia, nonché quello tra i due amanti scienziati che, nonostante il destino di ognuno di loro, continuano ad essere “attratti”, connessi l’uno all’altra); come la Gravità, sembra proprio che in quella narrazione filmica (così come in altre, ad esempio nella trilogia di Matrix (1999-2003) dei Wachowski la incontriamo nel rapporto tra Neo e Trinity ed in quello tra Morpheus e Niobe) l’Amore (la cui natura ontologica continua ad esserci ignota) riesca a superare le barriere invalicabili poste innanzi agli enti tridimensionali come noi, riuscendo così a farci accedere a dimensioni Altre, al di là della nostra comprensione cognitiva, verso la Speranza di una nuova Vita, alla Luce di un Nuovo Sole.
Amore: Fede, Speranza, Carità
Nel presente articolo, intendo quindi proporre l’idea secondo la quale Amore, come Sentimento e come Energia psichica, possa declinarsi fenomenologicamente attraverso i concetti di Fede, Speranza e Carità. Anche per questo, mi sembra adeguato partire, come al solito, dalle radici etimologiche dei termini oggetto di questo lavoro. Molti linguisti sembrano dare credito all’ipotesi secondo la quale la parola “amore” derivi da “amór-em”, dal verbo “amàre” che sta per “camàre”, dalla radice sanscrita “ka” (desiderare, amare). I latini usavano la parola “amore” per intendere uno slancio istintivo e passionale, contrapposto a quello della ragione per cui usavano la parola “dilìgere”, tratta da “lègere” (cogliere, scegliere). Un’altra teoria colloca invece l’origine della parola “amore” nella cultura egizia e in quella ittita attraverso la parola “hamenk” (che significa legare, unire, congiungere), ipotizzando così che possa essere formata da “a” (prima lettera dell’alfabeto, il cui valore numerico è “Uno”, il Divino) e da “mer”, radice che nell’antico Egitto esprimeva vari tipi di attrazione (affinità, desidero, amore) e tutto quello che portava due esseri a unirsi, come due poli di un magnete. In tal senso, allora, non sembra proprio un caso che gli antichi egizi chiamassero le piramidi “Mer” (prima che i greci la nominassero “piramide”, derivando tale termine da “pira”, ovvero “fuoco”), una sorta di magnate che unisce cielo e terra. L’amore dunque, secondo tale ipotesi, è l’Uno divino che ogni cosa collega e che tutto collega a sé, in qualsiasi direzione.

Esiste infine la convinzione, secondo alcuni e in ambiente cristologico, che la parola “amore” derivi da “a-mors” (composto cioè dal privativo greco “a” e dal termine latino “mors” (morte), che vuol dire “senza morte”, indicando così l’attaccamento viscerale alla vita del termine stesso.
Per quanto concerne l’etimologia della parola Fede, sembra derivare dal latino fides cioè “fiducia, lealtà” e dal latino foedus ossia “patto, concordia”. Nella latinità classica (ma ancora oggi se pensiamo, ad esempio, al “far fede” ad un impegno), tale termine indicava la “parola data”, la “lealtà” verso tutti, soprattutto nei confronti dei nemici.
Per quanto riguarda l’etimologia di Speranza, essa si ricollega al latino spes, a sua volta dalla radice sanscrita spa- che significa “tendere verso una meta”. Possiamo quindi ritenere la Speranza un vero e proprio sentimento che emerge dalle azioni anche se le stesse non la esprimono direttamente. Non possiamo comunque dimenticare che, nel tempo, tale termine ha avuto espressioni diverse e mutazioni, dal paganesimo al cristianesimo, espresse attraverso figure di divinità femminili fino ad acquisire la forma di una virtù astratta di aspettazione delle promesse della provvidenza e della salvezza.
Dall’etimologia di Carità rileviamo, infine, come derivi dal latino caritas (benevolenza, affetto, sostantivo di carus, cioè caro, amato) su imitazione del greco chàris (cioè “grazia” oppure “cura”), ma anche dal greco ἀγάπη, agápē (composto da “aga” (molto), “apo” (moto che si sposta da una persona a un’altra) e “ao” (termine indicante una situazione), ovvero: “darsi per creare uno stato nuovo nell’altro”).
Mi sembra importante qui ricordare come, nella religione buddhista, la compassione (detta karuna) è considerata una virtù fondamentale; essa, infatti, non si identifica semplicemente con l’empatia (la partecipazione alla sofferenza altrui), ma invita a svolgere azioni concrete per alleviare tale sofferenza. La compassione nasce dalla benevolenza verso gli altri (detta maitri) e si realizza mediante la generosità (detta dāna), non solamente materiale ma espressa attraverso la trasmissione all’altro della propria virtù dell’esistere. In tal senso, ma in forma diversa, Confucio affermò che il comportamento dell’uomo virtuoso deve essere ispirato dalla giustizia e dalla benevolenza (chiamata ren) e, infatti, raccomandò di rispettare nei rapporti umani (in particolare nei rapporti familiari e politici) il principio di reciprocità espresso dalla regola “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.
Amore: Dio
Attraversando gli ultimi tre termini sopradescritti, mediante le loro suggestioni linguistiche, possiamo ragionevolmente affermare che essi non indicano solo semplici virtù che l’uomo deve coltivare per poter essere considerato buono e degno. In ambito cristiano, infatti, esse sono definite virtù teologali, in quanto determinano il rapporto tra l’uomo e Dio. La stessa etimologia del termine teologale, infatti, lo suggerisce, derivando dal greco θεός, “Dio” e λόγος, “parola”. Proprio per questo motivo, allora, tali virtù non possono essere ottenute solo con lo sforzo umano, ma hanno come origine, causa ed oggetto Dio come Uno e Trino, informando in questo modo e vivificando tutte le virtù morali (difatti: la carità, intesa come amore per Dio, deriva dalla fede, cioè dalla rivelazione di Dio stesso, e anche dalla speranza nella vita eterna che conoscere Dio porta). Tali virtù sono quindi infuse da Dio nell’anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna. Sono il pegno della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell’essere umano. Non bisogna dimenticare, comunque, che le virtù teologali (così come tutto ciò che è trascendente) sono sempre state rappresentate simbolicamente nell’iconografia e nell’arte occidentale, sin dai suoi albori. Spesso esse sono state raffigurate come figure femminili (richiamandone così le radici pagane attraverso, ad esempio, il paragone con le tre grazie) giovani e belle. Alle rappresentazioni pittorico o scultoree delle tre virtù venivano così associati simboli iconografici ricorrenti come: il calice o la croce per la fede, una catena o un’ancora per la speranza, il cuore di Cristo per la carità.
In tal senso, e seguendo tale linea di pensiero, possiamo ritenere che, per quanto concerne la Fede, se partiamo dal presupposto che Dio è Verità allora essa si mostra come quella virtù che ci permette di credere in Lui e in tutto ciò che Egli ha rivelato come unica e ineluttabile Verità. È quindi la virtù che porta a credere completamente, abbandonandosi senza remore alla volontà di Dio ma non certo in modo passivo, poiché richiama ad agire in modo concreto, come testimonianza costante, da diffondersi il più possibile attraverso opere coscienti, aprendoci così alla salvezza attraverso la Speranza. Quest’ultima è, difatti, la virtù che spinge l’uomo a desiderare il regno dei cieli, la vita dopo la morte, come massima forma di felicità e adempimento di una esistenza sotto la guida dello Spirito Santo (terzo elemento della trinità). Infatti, per ottenere tale salvezza, non basta la semplice forza dell’uomo per ottenerla, ma occorre anche la grazia che Dio ha infuso nei nostri cuori, proprio tramite lo Spirito Santo. La Speranza, comunque, non va intesa come un semplice anelito alla felicità dopo la morte, poiché in essa è possibile ritrovare il motore che ci spinge ad affrontare le prove di ogni giorno, sostenendoci nelle delusioni e proteggendoci dai momenti di sconforto, alimentando così le altre virtù teologali, compresa la Carità che si presenta, appunto, come la declinazione dell’Amore di Dio nella sua manifestazione dell’amore verso il prossimo. Se, pertanto, la Speranza è il motore della virtù, la Fede ne è la strada su cui procedere, la Carità ne può rappresentare concretamente l’energia, la forza. La Carità, infatti, è quella inclinazione, quella forza che supera persino la morte, quell’orizzonte a cui tendere per dare Senso alla propria Esistenza terrena (personalmente mi piace definirla “tridimensionale”).
Superare sé stessi volendo tendere alla Santità, all’Illuminazione, non significa allora sacrificare senza senso il proprio esistere, aderendo supinamente a regole e leggi definite da altri ed alle quali bisogna adeguarsi, obbedendo a loro per vivere serenamente. Tendere al divino, all’Amore Assoluto, sembra infatti passare proprio per l’esplicitazione, nella vita di ognuno di noi, delle virtù sopradescritte intese come elementi sistematici di un modello volto all’acquisizione del profondo legame che ci unisce Tutti Noi esseri umani, come un Unicum evolutivo, al di là del bene e del male individuale.
Proprio per questo, in conclusione di questo lungo articolo e di questo ciclo di riflessioni sui Vizi e le Virtù, mi piace riportare quei passi del vangelo cattolico che, personalmente, mi sembrano sintetizzarne efficacemente il Senso profondo:
Rispondendo alla domanda rivoltagli sul primo dei comandamenti, Gesù disse: “Il primo è: “Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. E il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso“. Non c’è altro comandamento più importante di questo.” (Mc 12,29-31).
“Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.” (Gv 13,34).
a cura di Salvatore Rotondi