Vi sono due modi di accostarsi alla storia del diritto penale, uno è quello di studiare i testi normativi, le opere dei giuristi e quelle dei filosofi che si sono occupati di giustizia penale, l’altro è quello di tipo archivistico, che passa per la disamina delle consuetudini, delle prassi, degli interrogatori, delle arringhe degli avvocati e delle sentenze giudiziarie.
Il secondo metodo di indagine consente di cogliere, nella realtà storica, il funzionamento di quel microcosmo giudiziario in cui si riflette l’idea di giustizia che domina in un determinato periodo storico.
Solo gli archivi rivelano come il diritto veniva realmente applicato nelle aule di Tribunale, quale peso avevano nei fatti le idee dei giuristi e dei filosofi del diritto e in che modo veniva veramente amministrata la giustizia.
Lo studio delle prassi e delle procedure rivela allo storico la vera natura dei rapporti che intercorrono tra l’autorità e l’individuo o, potremmo dire anche, tra il potere e il suddito.
Ogni rapporto tra potere e suddito è, come ha insegnato Foucault, anche un rapporto tra il corpo del suddito e il potere.
È questo il metodo e l’oggetto dell’interessante indagine condotta dall’insigne storica del Secolo XVIII, Arlette Farge, nel suo agile libro dal titolo significativo: Corpi del Re. Condannati e condanne nella Francia del XVIII secolo.
L’opera della Farge, muovendosi nel solco delle ricerche foucaultiane, lavora sul rapporto intercorrente tra corpo e potere regale nella Francia del secolo XVIII, cioè nell’epoca di quella “spettacolarizzazione della pena” che precede, secondo Fuocault, l’era disciplinare.
La pena, nel secolo diciottesimo, rappresenta una delle espressioni più visibili e pompose del potere del Re sui suoi sudditi.
In qualsiasi forma si manifesti, la pena s’incide sul corpo del condannato, umiliandolo, seviziandolo, straziandolo, fino a cancellarlo del tutto.
Lo spettacolo della pena ricorda al condannato e alla folla che assiste, l’assoluto, incontrastato dominio del potere regale sul suddito.
“Il corpo”, scrive la Farge, “dev’essere torchiato, marchiato, rovinato dalla pena”(1), e ciò perché il potere sia visibile a tutti sul corpo del colpevole.
La punizione viene eseguita pubblicamente, come un vero e proprio spettacolo, una liturgia, perché la pena deve rispondere a due esigenze: celebrare la potenza del re ed educare i sudditi.
Il popolo che assiste alla punizione deve ammirare la potenza incontrastata del sovrano a cui tutti i corpi appartengono e deve rabbrividire, tremare davanti allo spettacolo della punizione, abbandonando all’istante ogni proposito di trasgressione della legge.
La pena è dunque uno spettacolo traumatizzante e ad un tempo educativo per i sudditi, affinché capiscano, con l’esempio, che il potere non tollera atti di ribellione.
Arlette Farge descrive un potere fastoso, che si manifesta con brutale e quasi cieca violenza, un potere che certamente non conosce ancora i razionali e raffinati sistemi di dominio che Foucault metterà a nudo in Sorvegliare e punire.
In un’epoca in cui la pena del carcere non esiste, le punizioni sono varie e si adattano alla natura del crimine ma tutte hanno qualcosa in comune: lasciano una traccia sul corpo del condannato.
La gogna piega e umilia il corpo del colpevole, esponendolo per ore sulla pubblica piazza, “con la testa inserita in un cerchio di legno e un cartello posto sopra indicante la natura del delitto”(2); il bando sradica il corpo del condannato dal territorio di origine, allontanandolo dai suoi legami e dai suoi affetti; la pena della marchiatura segna il corpo del reo con le iniziali del delitto commesso; la frusta e la ruota deturpano e straziano il corpo e la forca, infine, lo cancella dalla faccia della terra.
Anche la pena della galera lascia i suoi segni sul corpo. Essa trasforma il corpo del colpevole in un oggetto, riducendolo a un miserabile remo del vascello, da utilizzare fino a che non si sia usurato, fino allo stremo delle forze.
Inoltre la partenza dei galeotti incatenati l’uno all’altro rappresenta, altresì, uno spettacolo educativo per il popolo, perché questi “orrendi cortei erano pensati per mettere paura a tutti quelli che li vedevano passare”(3) .
La filosofia della pena investe la stessa procedura penale, la quale è anch’essa orientata alla sottomissione del corpo al potere.
Il primo atto procedurale infatti, “il mandato di arresto, il cosiddetto “décret de prise de corps”, è l’atto con il quale “ il potere si appropria del corpo del delinquente” (4) .
Arlette Farge rileva come l’intera procedura ruoti intorno alla confessione del reo, che rappresenta, fino al XVIII secolo, la prova delle prove.
Infatti, già dal primo interrogatorio, l’ispettore cerca la confessione dell’indiziato, perché la confessione rappresenta la vittoria del potere sul delinquente.
Il criminale si arrende, fa ammenda dei suoi errori e riconosce “la sua solenne sottomissione al re” (5) .
Come ho prima accennato, Corpi del re è però anche un’indagine sul rapporto tra punizione e popolo.
Nella Parigi del secolo XVIII il popolo, questa massa informe, indisciplinata e flagellata dalla miseria, rappresenta un problema; una “popolazione immonda” costituita da poveri, mendicanti, ladri, prostitute, malfattori e assassini è difficile da gestire.
Il XVIII secolo registra numerosi moti di rivolta popolare, dagli scioperi degli operai alle sommosse popolari per il pane e i cereali, in un crescendo di malcontento che terminerà con la famosa rivolta del 1750 per il rapimento dei bambini ordinato dal re (6) .
Non basta il terrificante spettacolo della punizione a soggiogare il popolo, occorre un intero apparato di prevenzione e di sorveglianza che osservi, spii, scruti, prenda nota e trasmetta all’autorità affinché intervanga tempestivamente.
Nasce così una fitta rete di ispettori di polizia che si servono di delatori, confidenti e sentinelle di ogni genere, i quali registrano tutto ciò che accade: discorsi, atteggiamenti, comportamenti, prediche e libri sospetti.
È dunque il problema del popolo che impone il cambiamento del sistema punitivo. Nel 1757 il tremendo supplizio di Damiens desta nella folla che assiste un certo fastidio, i tormenti inflitti al condannato sono atroci, superano di gran lunga la gravità del delitto commesso e allora si avverte la necessità di una svolta.
Quello di Damiens, secondo la Farge e Foucault, sarà l’ultimo supplizio pubblico del XVIII secolo prima della svolta disciplinare che vedrà il carcere come unica pena, per tutte le tipologie di delitti.
Giunti a questo punto bisogna chiedersi cosa sia rimasto, oggi, di quella spettacolarizzazione della pena di cui parla Arlette Farge nel suo libro.
Certamente è un dato incontestabile che oggi l’esecuzione della pena si sottrae ad ogni sguardo; il carcere, infatti, anche quando sorge al centro della città, resta per il comune cittadino un edificio misterioso, ove nessuno sa cosa accada realmente al suo interno.
Tutto quanto si verifica all’interno del carcere sfugge al giudice, agli avvocati e persino ai familiari del detenuto.
Esiste un ordinamento penitenziario con le sue norme scritte e poi ci sono regole non scritte, prassi e usi che solo il detenuto deve conoscere per sopravvivere.
V’è inoltre da aggiungere che, ormai da tempo, il carcere è anche sparito dai dibattiti degli intellettuali e persino da quelli degli addetti ai lavori, tanto che in Italia se ne parla soltanto quando la Corte europea ci ricorda che esistono diritti umani che abbiamo violato.
Nessuno più si interroga sulla utilità del carcere, sulla sua ragion d’essere e sul suo futuro. Tace ogni progetto di riforma.
Possiamo dunque affermare che si è passati dallo spettacolo della pena al silenzio sulla pena, con tutte le conseguenze disastrose che conseguono a un siffatto atteggiamento d’indifferenza.
Il dato emergente è invece che la spettacolarizzazione si è spostata sulla fase del processo, con il sopravvento del cosiddetto “processo mediatico”.
Lo spettacolo del processo attraverso i mass media, in alcune sue degradanti manifestazioni, si avvicina molto alla gogna, con l’immagine dell’imputato in manette o dietro le sbarre, privato dell’onore e della dignità, già colpevole per il solo fatto di apparire in Tribunale.
Il processo mediatico non risponde però a nessun intento educativo né gli si può attribuire alcuna funzione catartica.
Il pubblico si divide tra innocentisti e colpevolisti senza alcuna cognizione di causa e, quel che è peggio, lo spettatore assiste passivamente, con la convinzione, del tutto errata, che la verità sia davanti a lui, splendente nella sua evidenza, al punto che chiunque possa vederla e toccarla con mano.
a cura di Gaetano Esposito
Bibliografia essenziale
A. Farge – Le parole sovversive. L’opinione pubblica nel XVIII secolo – QuiEdit 2012
A. Farge – Il braccialetto di pergamena. Lo scritto su di sé nel XVIII secolo –Sylvestre Bonnard 2003
A. Farge – Il piacere dell’archivio – Essedue Edizioni 1991
A. Farge– Michel Foucault – Le désordre des familles. Le lettres de cachet au XVIII siècle – Gallimar 1982
(2)Op. cit. pag. 16
(4)Op. cit. 32