Alcune precarie note sul concetto di azione penale


Wooden gavel on book. Justice and law concept.La letteratura penalistica in quanto alla procedura nasce dal Tractatus de tormentis, di autore anonimo, dal Tractatus de maleficis redatto nel 1286 da Alberto Gandino, e dal quattrocentesco omonimo opus di Angelo Gambiglioni; s’abbevera poi alla riflessione di Argisto Giuffrédi (1535-1593)1, nel Settecento all’opera di Tommaso Briganti avvocato e giureconsulto di Gallipoli (1691-1762)2, a quella dei riformatori napoletani, dei pensatori piemontesi, fra i quali ultimi Alberto Radicati di Passerano3, secondo Piero Gobetti “il primo illuminista della penisola”, e degli intellettuali milanesi frequentatori dell’Accademia dei Pugni che animavano la rivista Il Caffè, fondata e diretta da Pietro Verri; non di meno, è eretta come insegnamento autonomo soltanto col R.D. 30 settembre 1938, n° 652.

Orbene, all’interno della procedura risulta che non esiste l’idea di azione quale formula ricostruttiva universalmente valida, bensì ne esistono tante possibili formule quanti sono i sistemi processuali concretamente vigenti, giacché deriva da contesti sociali e ordinamentali dati, e quindi non è universalizzabile.

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, fin dall’inizio il tema è stato sviluppato attorno all’interrogativo se l’azione debba essere concepita come una tra le possibili formule in cui si manifesta il diritto sostanziale, ovvero come diritto soggettivo autonomo. Interrogativo – è stato puntualmente osservato – soltanto in apparenza dottrinale, perché reca in sé la disputa circa i rapporti tra Stato e persona, ovvero, in ambito ristretto, tra le prerogative spettanti all’individuo in quanto membro di una data comunità statale e i meccanismi predisposti dall’autorità per la tutela delle situazioni giuridiche individuali.

E’ nell’800, il secolo delle pulsioni rivoluzionarie e delle propensioni restauratrici, che, nel quadro degl’influssi politico-sociali sulle teorie dell’azione (qui, il pensiero va, fra gli altri, a Windscheid – fermamente antilluminista – per il quale non era piú bastevole la definizione di Celso: nihil aliud est actio quam jus quod sibi debeatur pesequendi) si registra la confluenza fra la teoria giusnaturalistica dei diritti innati (cara a Rousseau) preesistenti allo Stato, e la teorica di Savigny che decisamente s’opponeva all’Illuminismo e ai suoi “miti”, tentando d’imporre l’idea dell’azione come puro strumento di tutela del diritto soggettivo violato.

In Italia, la speculazione filosofico-giuridica di Chiovenda opera una decisa inversione di rotta rispetto alla prospettiva epistemologica: all’idea dell’azione come situazione giuridica soggettiva inerente al diritto leso, si sostituisce quella per cui l’intervento del giudice, ossia dello Stato, su una situazione giuridica controversa, cessa di essere una mera appendice del diritto soggettivo per diventare un diritto a sé stante.

Insomma, la costruzione del Chiovenda, com’è universalmente riconosciuto, rappresenta non soltanto il polo estremo – la terra di Thule – della percezione della statualità del diritto e delle sue manifestazioni, ma anche una traduzione in termini processualistici della teoria coattiva del diritto perfezionata da Hans Kelsen, ultima filiazione del positivismo giuridico.

Dunque, quando sulla scia delle ripetute critiche dei riformatori illuministi e dell’inevitabile mutamento dei rapporti generali tra Stato e persona, questa non piú intesa come suddito bensì cittadino, la legislazione inizia un processo di rinnovamento, l’azione penale si trasforma e acquista lineamenti normativi piú definiti, non piú come mero potere, ma diventa munus publicum e acquista l’attributo di obbligatoria.

A ben vedere, tuttavia, il suo valore pratico è meramente strumentale, indispensabile a fini conoscitivi, ma di una conoscenza che per risultare utile deve andare oltre il “cos’è” dell’azione penale per il “com’è”, ossia come viene delineata nell’ambito dell’ordinamento in cui è immerso l’interprete.

Cosí nell’esposizione dottrinaria, l’azione penale viene dotata preliminarmente di alcuni attributi finalizzati a tratteggiarne i caratteri essenziali nell’ambito dell’ordinamento: obbligatorietà [art. 112 Cost.; art. 1 C.p.p. 1930, cd. Cod. Rocco], pubblicità, officialità e irretrattabilità.

L’intreccio tra obbligatorietà dell’azione penale e configurazione ordinamentale del PM era stato già considerato in seno alla Costituente, come un primo vero: Bettiol e Leone in quella sede, peraltro, non trascurarono di sottolineare l’esistenza d’un legame sicuro fra Stato democratico e ricezione del principio di obbligatorietà dell’azione.

Un atteggiamento politico e culturale derivato dal fatto che s’attribuivano al passato regime fascista manovre indebite nelle questioni penali da parte dell’esecutivo: in realtà, una preoccupazione infondata, giacché i giudici furono lasciati tranquilli avendo il Fascismo, per i suoi fini, creato il Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

Al tirar delle somme una questione che conosce un’attualità indubitabile, resa ancora più evidente dai problemi che provocano l’incalzare della criminalità organizzata e quella dei colletti blu [cfr. cd. circolare Maddalena], oltre che per riflessi sul problema dell’indipendenza di esercizio della funzione d’accusa, da cui germina quello della oggi invocata separazione delle carriere.

A guardare con attenzione, quindi, risulta che il nostro ordinamento, che recepisce la regola dell’obbligatorietà nonostante il contesto applicativo sia quello che tutti conosciamo, si espone a guasti peggiori della sola disapplicazione in fatto del principio: il progressivo espandersi di comportamenti discrezionali finisce per corrispondere a una prassi sommersa in quanto ufficialmente illegale e quindi incontrollabile [Beria di Argentine].

In altre parole, il principio della obbligatorietà, adottato per rendere trasparente il comportamento degli organi della Stato al momento dell’esercizio dell’azione penale, si trasforma, come è stato scritto con prosa gonfia di barocchismi, in uno schermo mistificante, un apparato teatrale, dove nel retroscena gli attori cambiano maschere e costumi senza che alcuno possa notare qualcosa.

a cura di Salvatore Maria Sergio 

Note

1. L’opera di Argisto Giuffrédi intitolata Avvertimenti ai cristiani, da cui si leva alta la voce dell’A. contro la pena di morte, ebbe ampia circolazione manoscritta, ma venne data alle stampe soltanto nel 1896.

2. Risulterebbe estrinseca all’argomento di questo scrittarello la menzione dell’astio sorto come una cortina ferrea fra i fratelli Verri e Beccaria, dopo il successo europeo del libro del marchese, reso in certo modo agevole dalla “scrittura” brillante, ma fuor di dubbio scaturito dal sodalizio intellettuale con gli animatori de Il Caffè, di cui i Verri erano mentori e guide, dove si discuteva sulla giustizia penale in Europa.

Non di meno voglio ricordare, almeno in nota, che quasi vent’anni prima che Coltellini, a Livorno, stampasse adèspoto e con la falsa indicazione “Losanna” il trattato di Beccaria (il gentiluomo milanese era intimorito dalla censura: altra edizione, sempre priva del nome dell’autore, è quella del 1766, di Aubert, tipografo in Livorno, ma recante il falso luogo di “Harlem”: soltanto dopo il successo europeo Beccaria rivelò d’esserne l’autore. La storia delle diverse edizioni è complessa e per molti versi ancora inesplorata: si legga: ex plurimis, R. Sbardella, Beccaria/dei/delitti e delle/pene/con/note, La Città del Sole, Napoli 2005. Nella mia biblioteca v’è una copia “pirata” edita a Milano col “commentario del Signor Voltaire”), l’oscuro avvocato gallipolitano Tommaso Briganti, con occhi di giurista illuminato, aveva pubblicato nel 1747, a Napoli, per i torchi di Mazzola e Vocola una Practica criminale delle corti regie e baronali del Regno di Napoli (una copia è conservata nella Biblioteca Storica A. De Marsico, in Castel Capuano, Napoli), fermamente condannando la pratica della tortura come mezzo di ricerca della prova e la pena di morte. L’opera di Briganti, dalla “scrittura” invero arida e tutt’affatto diversa da quella brillante del marchese di Bonesana, ebbe circolazione soltanto nel Sud della penisola, talché si spiega il quasi assoluto silenzio sul suo autore. Infine, voglio ricordare, al di là dei sopraggiunti furori apologetici, che per quanto concerne la pena capitale il marchese di Bonesana non fu precisamente “abolizionista”, tant’è che qualche suo pur autorevole inteprete è stato costretto a definirlo “moderatamente abolizionista”. È sufficiente leggere il paragrafo XVI dei Delitti: “La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino diviene dunque necessaria …” Sarà nel 1786 che l’arciduca austriaco, Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana, promulgherà la rivoluzionaria legge abolitiva della tortura e della pena capitale.

3. Sul pensatore piemontese. si leggano le biografie di A. Alberti e (soprattutto) di F. Venturi, Einaudi, Torino 2005.

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