Ne Il Cortile dell’Avvocato Francesco Russo ormai Cincinnato nel Cilento boscoso e rude il racconto ora malinconico ora ironico di storie forensi antiche e d’oggi


 

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  Edito, col patrocinio dell’Ordine degli Avvocati, da “Officina Forense”, pref. Mario Cianci, Napoli 2017, pp. 71, Copie non venali.

Molti, anzi moltissimi, sono coloro che hanno scritto di Napoli, per Napoli, su Napoli: senza andar troppo indietro nel tempo, Francesco Mastriani, Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, poi piú vicini a noi, Carlo Bernari, Mario Pomilio, Michele Prisco, Peppino Marotta, Guglielmo Peirce, Elena Canino, l’indimenticabile autrice di Clotilde tra due guerre, Luigi Incoronato, Mimì Rea, Raffaele La Capria, Ermanno Rea, Domenico Starnone…

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L’autore, Francesco Russo

Ora, a scriverne, ci si è messo anche l’avvocato penalista Francesco Russo. Per vero, lui scrive di storie e storielle che si svolsero su un palcoscenico particolare: Castel Capuano e il suo cortile.

Nondimeno, e nessuno potrebbe sollevare dubbi, Castel Capuano è Napoli, è la storia di Napoli, quella grandiosa e quella miserabile, quella viceregnale, barocca, masaniellesca, la Napoli scontraffatta di Titta Valentino mastrodatti del Tribunale, quella del Risanamento e via ricordando…

Orbene, a leggere le dilettevoli pagine de Il Cortile[1], d’un sùbito si profila l’interrogativo: si tratta, per un verso, d’una sorta di felliniano amarcord partenopeo, che sembra evocare gli anni gloriosi durante i quali i principi del Fôro levavano le loro voci nelle tetre aule del Castello?

Era quello – va detto di passata – il tempo in cui nell’ormai scomparso “Caffè Uccello”, in via del Duomo, in prossimità dell’Oratorio dei Gerolamini, prosatori e poeti davano vita (precaria, molto precaria per scarsità di mezzi economici) al giornale letterario dalla romantica testata, “Il Roseto”; l’Orbo Veggente scriveva su un tavolino del “Gambrinus” A vucchella, e Don Salvatore Di Giacomo esercitava la sua malinconica vena poetica nei versi dal sapore vagamente carducciano di Ariette e Sunette, che sovente Donna Matilde (la Serao, superfluo precisare) ospitava nelle colonne de “il Mattino”.

copertinaOvvero, al lato opposto, Il Cortile, dietro il calco dell’umorismo, o fors’anche di un’ironia non indegna di quella che aveva guidato la penna di Merlin Cocai, nom de plume di Teofilo Folengo al quale si deve l’Opus Maccaronicum, è la denuncia accorata della caduta dei valori e principî esemplari propri dell’Avvocatura?

Allora, per dissolvere il dubbio, proviamo a scandagliare le storie che Francesco Russo ha raccontato talvolta con malizia, tal’altra con trasparente malinconia.

Sono vicende in cui come comprimari compaiono “il giornalista” Carlo Di Nardo, vero e proprio ossimoro politico-culturale, fermamente comunista e romanticamente monarchico, esemplare modello delle contraddizioni peculiari di certa parte della società napoletana d’ogni tempo, a cominciare da quella che Ser Giovanni Boccaccio, nella Sala del Consiglio Segreto del Regno, oggi Salone dei Busti, andava descrivendo agli Angioini con le sue invenzioni favolistiche, quale, per esempio, la ridevole disavventura di Andreuccio da Perugia, che secondo il mio compianto amico Mimì Rea è il piú bel racconto che mai sia stato scritto su Napoli.

Poi, al lato opposto del Casstello, due altri comprimari, il Cavaliere della Repubblica Don Vincenzo Ciardi e il figlio Guido, “di sicura discendenza inglese – dice l’Autore – perché compiti come Lord”, titolari dell’antica barberìa ubicata di fronte all’entrata del Castello, dove, assisi sulle eleganti poltrone di velluto, s’avvicendavano avvocati illustri e quelli che viceversa ebbero contrari i venti e infrante le vele.

Dei due Lord, ha scritto in pagine avvincenti quasi con tenerezza, Francesco Russo, con una prosa che fa pensare alla fantasia trasfiguratrice di cui è intriso il libro intitolato Gli alunni del sole di Peppino Marotta, o, in qualche misura, a certi svolazzi stilistici di Mimì bluette fiore del mio giardino o Sciogli la treccia Maria Maddalena di Guido da Verona, romanziere dal gusto estetizzante che rifletteva quello borghese degli anni venti del secolo scorso.

E, infine, protagonista della storia, il Castello: edificato extra moenia, dapprima dimora principesca, poi palazzo di giustizia e carcere (nelle sue segrete furono detenuti il piú illustre poeta del secolo barocco, il Cavaliere Gian Battista Marino, Luigi Settembrini, intellettuale raffinato e fervente patriota antiborbonico), proscenio e straordinaria metafora della storia di Napoli durante le passate tristi signorie straniere che avevano diviso l’Italia fino all’ascesa al trono Carlo di Borbone nel 1734, impegnato col suo ministro Tanucci in un ambizioso programma riformistico, e infine, divenuta l’Italia Regno unitario, affollato da lazzari e paglietti che avevano disgustato coi loro strepiti celebri viaggiatori stranieri, come Montesquieu, il nostro Abate Galiani, le petit abbé adorato da principesse e marchese dei circoli politico-culturali parigini, e il cronista Domenico Confuorto, con moraleggiante allusione, aveva definito “caos”.

Ma, quel che qui piú interessa, il Castello e il suo Cortile erano “abitati” da forensi illuminati, impegnati nella contestazione del Diritto comune fondamento del sistema feudale, nell’opposizione al tentativo d’introdurre a Napoli l’Inquisizione di rito spagnolo, e a respingere, avendo proclamato il primo sciopero d’ogni tempo, pagato col carcere o con l’esilio, l’immonda pretesa di controllo politico del ceto forense avanzata dal Visitatore De Alarçon. Al tirar delle somme, la respublica dei togati s’era imposta come un vero e proprio contropotere nelle aule di giustizia e nei ministeri. Ciò che aveva provocato il mormorìo dei nobili, storicamente parassitari, servili verso i potenti e abbondantemente incolti.

Or dunque: scorrendo a caso le pagine de Il Cortile, incontriamo “tre figuri in lobbia e doppiopetto” che sbarrano l’ingresso a un giovane d’antica prosàpia normanna: chi sei, dove pensi d’andare, che vuoi?

Dall’albero fronzuto della memoria pende l’immagine dei bravacci descritti dal grande gentiluomo lombardo politicamente codino, e dei quali non volle per decenza trascrivere la canzonaccia. Quando i tre bravi apprendono che il giovanotto, nomato Filippo Trofino, è stato allievo di Vittorio Botti, principe del Foro discendente da un’illustre dinastia di giureconsulti, si fanno da un lato e gli dànno il benvenuto.

Allora, è tutto chiaro, Franco Russo svela il mistero: i tre figuri, che a onor di verità sono insigni penalisti, Don Orazio Cicatelli, sottile costruttore di palladiane tesi difensive; Don Luciano Pesce, nolano, che nel carattere ha impresso lo spirito del suo grande concittadino; e Don Gaetano Dalia, sornione e ironico, fratello spirituale di Apulejo, stanno di sentinella per difendere la sacralità dalla Toga.

Andiamo avanti nella lettura, ancorché cursoria, de Il Cortile: appena varcata la soglia del Castello, ecco la sede dell’Associazione Avvocati Combattenti e Reduci, i “ragazzi del 99”. Costoro avevano lasciato alle spalle il sangue, il fango delle trincee pidocchiose dell’Isonzo, della Somme, del Carso, il grande massacro, e tornando a vivere. Qualche scettico osservatore potrebbe pensate a una sacra congregazione di vecchi avvocati rimbambiti che lì s’adunavano per ingannare, fra ricordi e racconti d’epiche gesta, il tempo che loro rimaneva da vivere in questa valle di lacrime. Viceversa, i “ragazzi del 99”, per i giovani aspiranti alla Toga, erano i testimoni autorevoli delle glorie forensi e i guardiani inflessibili delle regole etiche, morali e deontologiche.

Il racconto di Russo risveglia certi miei ricordi: nel sacrario dei “ragazzi del 99” bazzicavano Pietro Adinolfi, in gioventù valoroso schermidore e senatore socialista del Regno poi della Repubblica, il civilista Pasquale Scopece, sciabolatore dalla carica agonistica feroce, il generale dei Bersaglieri Gaetano Tortorano, consigliere anziano dell’Ordine Forense, e, ancorché stilizzati, eleganti, due “pregiudicati”: Mario Mastrolilli, penalista e il fratello Vittorio, civilista, che in gioventù erano stati campionI nazionali di sciabola e di fioretto individuali e a squadre.

Già, pregiudicati specifici reiterati i due Mastrolilli, giacché le loro credenziali del casellario risultavano punteggiate di condanne come portatori di sfide a duello, o per essere scesi sul terreno molte volte loro stessi. A Mario, tra le altre, il Tribunale aveva inflitto una non lieve sanzione per essere andato, in compagnia d’un medico pur’esso “pregiudicato”, a sfidare in qualità di secondi dell’avvocato-giornalista Francesco Marsella il barone Bernardo Giannuzzi Savelli, piissimo, religiosissimo avvocato della Curia e del Cardinale, il quale, però, oppose un rifiuto avendo in “gran dispitto” il Codice Gelli, il codice cavalleresco Bibbia dei gentiluomini per le sue fermissime convinzioni religiose.

Le due spade da impiegare nello scontro erano state fornite (gentilmente ma inutilmente come ora s’è avuto luogo di ricordare) dall’avvocato, nonché onorevole deputato del Movimento Sociale Italiano, Ferdinando di Nardo, detto Nando, sciabolatore e presidente dell’Accademia Nazionale di Scherma, oltre che lettore vorace di Joseph de Maistre e nostalgico del tempo in c’era “Lui”.

Sovente, in quel sacrario si poteva incontrare anche Arturo de Vecchi, avvocato-capo del Municipio, campione olimpionico e del mondo alle tre armi, fioretto, spada e sciabola. Ne aveva vinte di medaglie in tal numero che quando le esibiva sul bavero della giacca il peso gli trascinava la spalla verso il basso.

Mi punge vaghezza di sottolineare l’umorismo corrosivo con cui Francesco Russo ha delineato il ritratto di Don Ettorino, anche lui frequentatore assiduo del sacrario, patentato di genere pirandelliano, che sembra uscito da un sabba stregonesco dipinto da Salvatoriello Rosa, artista di genio e autore di taglientissime Satire; e, ancora, dedicare un rigo alla presa in giro di quel pubblico ministero che si autocelebrava irresistibile tombeur des femmes.

Cosí come mi pare non inutile additare al lettori il gustoso racconto della calandrinesca burla giocata ai danni d’un collega vanerello di se stesso da sghignazzanti forensi, stabilmente residenti sul lastrico del Cortile perché impegnati a individuare chi “sfottere”, e citare gl’innumeri altri interpreti e comprimari della saga di Castel Capuano sortiti dal calamo appassionato di Francesco Russo.

Ma ruit hora e non voglio sottrarre ai lettori – che fuor d’ogni dubbio non saranno soltanto i trenta di Jules Amédée Barbey d’ Aurevilly – il gusto di scoprire nelle pagine del brillante avvocato-scrittore, che ha scelto di farsi Cincinnato, i segreti, le meraviglie, le storie di Castel Capuano e del suo Cortile. Insomma, le storie di Napoli.

a cura di Salvatore Maria Sergio   sal

[1]           Edito, col patrocinio dell’Ordine degli Avvocati, da “Officina Forense”, pref. Mario Cianci, Napoli 2017, pp. 71, Copie non venali.

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