4 maggio 2017. Presentazione de “Il Cortile” di Francesco Russo. L’intervento dell’avv. Alessandro Gargiulo, segretario dell’Associazione “Officina Forense”


1Lo scorso 4 maggio, presso la Biblioteca De Marsico, in Castel Capuano, si è svolta la presentazione dell’ultima opera dell’avvocato Francesco Russo,  “Il Cortile” edito da Officina Forense. Pubblichiamo l’intervento del Segretario dell’Associazione Officina Forense, avv. Alessandro Gargiulo.
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avv. Alessandro Gargiulo, Segretario dell’Associazione Officina Forense

“Per me oggi è veramente difficile introdurre l’argomento, talmente difficile che, infatti, non lo introdurrò, non ne sono in grado, ma i “prenotati” a parlare, insieme a tutti quelli che, “senza freno alcuno”, vorranno intervenire, non solo introdurranno, ma parleranno di Franco Russo, elogiandone la figura di Uomo, di Avvocato, di Napoletano.

Sì perché noi di Officina Forense, come molti di Voi, riteniamo che la Napoletanità sia una qualità unica e rara; in effetti non tanto unica e nemmeno tanto rara; perché è una qualità non genetica, o per lo meno anche non genetica, è una qualità che si acquisisce vivendo appieno la Città, così come alcuni di Voi in questa splendida cornice, non napoletani di nascita, ma Napoletani di vita, di studi (liceali ed universitari), di pratica forense. Perché così come si può diventare Napoletani, vivendo appieno la Città, così un tempo si poteva diventare Avvocati Napoletani frequentando questo splendido maniero.

Un Castello talmente bello che non se ne conoscono le origini, perché a tanta bellezza deve necessariamente corrispondere una giusta dose di mistero.

Le prime notizie certe risalgono al 1156, l’epoca di Guglielmo I detto il Malo (non perché cattivo, ma tirato, molto tirato) era Normanno; guarda caso, il successore, più giovane, ovviamente, forse avendo avuto la possibilità di acquisire la Napoletanità di cui sopra, si chiamò Guglielmo il Buono che, in questo Castello sposò, un attimo, un attimo, Giovanna, la figlia del Re d’Inghiterra, Arrigo II, era il 1166. Sicuramente in quel periodo, nel Castello, si amministrava la Giustizia Criminale.

Dopodichè la Storia del Castello, sino a Don Pedro de Toledo, unitamente a quella di tutti coloro che l’hanno vissuta è di difficile ricostruzione, se non altro per la estrema densità degli accadimenti.

Federico II di Svevia, Manfredi, Carlo I d’Angiò, Carlo II d’Angiò, Roberto d’Angiò, Giovanna I, Carlo III di Durazzo, Ladislao di Durazzo, Giovanna II, Alfonso I d’Aragona, Alfonso II d’Aragona, Ferdinando II d’Aragona.

Si tratta di un elenco incompleto, mancante di molti altri protagonisti che nel Castello, nel bene e nel male, qualcuno potrebbe facilmente sostenere, nella più sfrenata perdizione, hanno fanno la Storia della Città.

Ferrante, Duca di Calabria ed Erede al Trono, dopo la disfatta del 1501, fu condotto prigioniero a Valenza ove fondò il convento di S. Sebastiano e dove morirono e furono sepolte le due sorelle: Isabella e Giulia.

Nel 1517 ospitò le nozze di Bona Sforza con Sigismondo re di Polonia e nel 1535 vi soggiornò Carlo V reduce dalla spedizione di Tunisi.

Ultimo evento sociale di rilievo furono le nozze di Filippo di Lannoy che, insignito del Toson d’Oro da Carlo V, ebbe dallo stesso in dono il Castello, solo dopo essere stato nominato principe di Sulmona. Filippo prima delle nozze con Isabella Colonna duchessa di Trento, fece sistemare ed abbellire il Castello. Alle nozze parteciparono Ercole d’Este, Guidobaldo della Rovere, Pier Luigi Farnese, Alessandro de’ Medici, il Duca d’Alba, Andrea d’Oria e tantissimi Cardinali.

Le nozze di Filippo con Isabella e le feste a seguire, furono le ultime perché il Vicerè Don Pedro de Toledo, offrendo in cambio un sontuoso palazzo a Via delle Corregge, ottenne la cessione del Castello ove riunì tutti i Tribunali cittadini, dando incarico agli architetti Giovanni Benincasa e Ferdinando Manlio di adattarlo alla nuova destinazione.

La trasformazione del Castello, da Reggia in Tribunale – benchè come visto già precedentemente si era ivi amministrata la Giustizia – ispirò il poeta Galeazzo da Tarsia che, paragonando la sua sorte a quella del Castello così scriveva:

O felice di mille e mille amanti

diporto, e di reali donne diletto,

Albergo memorabile ed eletto

a diversi piacer quest’anni avanti

Or di paura d’ira e di sospetto

D’odio, di crudeltà solo ti vanti

Ed abisso di tenebre e di pianto

Sei fatto al popol vile anche dispetto

Così altra fortuna, altra sembianza

T’ha dato il tempo ed io nel tempo addietro

Fui ben simile a te, se ben guardi,

Or di man, m’è caduta ogni speranza

E conosco quantunque indarno e tardi

Ch’ogni nostro diletto è un fragil vetro.

Cosa accade quando la Reggia, per così dire, chiude, e apre il Tribunale?

Inizia una nuova Storia, la Storia delle Storie, Lo Cunto de li Cunti intorno ai fatti di Giustizia.

Dei Sette Uffici del Regno introdotti da Ruggero il Normanno si passò, ad opera di Don Pedro de Toledo, al Tribunale che riunì:

  1. la Gran Corte della Vicaria (un tempo a latere principis);

  2. il Maestro Giustiziere (poi riformato da Alfonso d’Aragona e suddiviso in quattro ruote, due civili e due penali);

  3. il Sacro Regio Collegio (altra creazione di Alfonso d’Aragona, una sorta di Corte d’Appello con anche giurisdizione sulle cause più importanti delle dodici province);

  4. la Regia Camera della Sommaria (una sorta di Corte dei Conti e di Commissione Tributaria);

  5. il Tribunale della Zecca (giurisdizione sui pesi, misure, contabilità);

  6. il Tribunale della Bagliva (una sorta di Pretura);

  7. la Gran Corte della Vicaria.

Tutto confluì prima, nel 1507, nel Consiglio Collaterale, poi fu istituito il Consiglio Supremo d’Italia e, poi, ancora, a completare, i Tribunali delegati e straordinari.

Tutto però ebbe anche una ragione per così dire, poco tecnica: Don Pedro non vedeva di buon occhio la potenza e il prestigio del Marchese del Vasto, Grande Camerario, presso il cui palazzo risiedeva al Regia Camera della Sommaria.

Il Palazzo era posto di fronte alla Chiesa della Pietra Santa. Il Marchese si adoperò presso Carlo V addirittura per far allontanare il Vicerè, ma non vi riuscì.

La grande riforma era iniziata, la Nuova Storia del Castello non poteva essere fermata. La Riforma di Don Pedro ha lasciato il segno, indelebile: prima dell’inaugurazione della nuova sede Don Pedro radunò i Consiglieri del Re, Gli Ufficiali del Regno, i Magistrati e li esortò: “ad avere sempre dinanzi agli occhi la Giustizia e a distribuirla a tutti senza umani rispetti, non per favore non per odio ma unicamente per Dio e per servizio maggiore del re”.

Don Pedro poi:

  1. stabilì le ore di udienza;

  2. fissò le spese di giustizia (tasse);

  3. aumentò il numero dei Giudici,

  4. assegnò il vitto ai carcerati poveri;

  5. aprì un ospedale per gli infermi;

  6. elevò i Magistrati al più alto grado di dignità e di prestigio ed offrì loro una residenza nel Castello (in particolare vi dimoravano il Luogotenente della Sommaria, il Reggente per la Gran Corte della Vicaria, unitamente ad un Giudice criminale, il tutto per garantire l’esercizio continuo della Giustizia.

  7. abolì il 17 aprile 1546 la famosa COLONNA della VICARIA; famosa per la pena che dovevano espiare gli insolventi ma anche perché utilizzata come vera e propria MORGUE.

Nel 1600 le Carceri del Castello furono definite “le più comode che fossero allora in Italia”.

Sempre nel Castello, vi erano le Carceri per i nobili, quelle per i pezzenti, quelle di San Lazzaro utilizzate per i delitti più gravi, il Carcere per le donne, completamente rifatto nel 1685 dal Vicerè conte d’Ognatte.

Sin dal 1500, ad opera della Curia Forense, quale opera di carità, si cominciò a preoccuparsi sul come alleviare le pene dei carcerati.

Sempre nel 1500 in una sala del Cortile si insediò un Ufficio della Congrega di S. Maria del Monte dei Poveri che nel 1575 si spostò in un edificio costruito a sua cura e spese.

Altra opera caritatevole ad opera dei Padri Regolari Barnabiti di S. Paolo, fu la fondazione di un Sodalizio (composto da nobili e da dottori), la Congrega di S. Ivone, che diede vita alla prima forma ufficiale di GRATUITO PATROCINIO; inizialmente era presieduta dal Presidente del S. R. Consiglio e poi fu retta da Governatori i cui nomi e le cui gesta ancora fanno eco in questo Castello: De Marinis, Giovan Francesco Marciano, Diego Moles, Antonio Fiorillo, Giovan Battista Odierna, Giuseppe De Rosa, Paolo Staibano, Francesco D’Andrea, Biagio Aldimari, Serafino Biscardi, Vincenzo Ippolito.

Pur essendo nata molto prima, data ignota in effetti, vi è un documento datato 1630 ove Francesco Antonio Scalzo e Donato De Lellis, avvocati entrambi, il primo della Curia Arcivescovile, con altri avvocati, dottori e procuratori “si assunsero il peso di difendere per assoluta carità ed amor di Dio le liti giuste delle persone povere e miserabili con contribuire anche le spese che vi fossero necessarie”.

Sempre nel Cortile vi era la Camera del Boia, e verso la metà del 1600, all’epoca di Masaniello, per intenderci, destò non poco scalpore il processo e la successiva condanna (ferocissima) inflitta al Boia Antonio Sabatino, corrotto al fine di ingigantire le sofferenze dei condannati a morte.

A seguito del famoso concordato tra Carlo di Borbone e Benedetto XIV fu istituito il Tribunale Misto per le cause riguardanti le Chiese e i chierici e le immunità locali reali e personali.

Il 23 settembre 1774 una legge impose ai Magistrati la MOTIVAZIONE delle SENTENZE.

Durante il regno di Ferdinando II l’Amministrazione della Giustizia assunse nuove vesti, rimanendo in Castel Capuano.

Con l’Unità si vide la formazione di una nuova Giustizia più vicina a noi contemporanei: Conciliatori, Pretori, Tribunali Civili e Penali, Corte di Assise, Corte di Appello, Corte di Cassazione, presente in città nel Convento di Monteoliveto sino al 1926.

Il Castello ha purtroppo ospitato nelle sue carceri anche i martiri del 1799 e proprio durante la prigionia dei rivoltosi, una Famiglia, in particolare, tra le tante, subì una vera e propria falcidia, Vincenzo De Gasaro e Cherubina Cinque erano genitori di ben sette figli, nelle segrete del Castello furono rinchiusi tre di questi, i fratelli Gennaro, Gerardo e Placido i quali furono condannati a morte con altri 14 rivoluzionari, mentre Vincenzo, anche conosciuto come Gasaro Baccher fu mandato in esilio. La notte precedente il giudizio, a Placido venne in sogno la Madonna che gli promise di salvarlo, chiedendogli di consacrarsi a Lei e così fu; l’indomani, innanzi il Tribunale Straordinario insediatosi a Palazzo Reale, i Giudici, inspiegabilmente, ne decretarono la liberazione, mentre i fratelli furono fucilati con altri 14 rivoluzionari. Inspiegabilmente ancora, Placido – più avanti conosciuto come Don Placido Baccher – si salvò dal successivo ordine di cattura spiccato dal Presidente del detto Tribunale che si era accorto della misteriosa mancata esecuzione dello stesso. Nella Chiesa, poi, nota come Gesù Vecchio, ma una volta denominata del Santissimo Salvatore, Don Placido passò la restante parte della sua vita a venerare la Madonna, facendosene costruire una dall’artista Nicola Ingaldi, a somiglianza di quella che gli era venuta in sogno. Il 30 dicembre 1826 Don Placido Baccher ottenne l’incoronazione della sua Madonnina a mani del Cardinale Luigi Ruffo Scilla, alla presenza del Re, della Corte, delle Autorità cittadine, degli Avvocati e dei Magistrati più insigni e devoti, salve di cannone da Castel S. Elmo e da Castel Nuovo. Il giorno seguente l’incoronazione la Madonna apparve nuovamente a Don Placido e gli disse:”BEATI PARTICOLARMENTE TUTTI QUEI SACERDOTI CHE CELEBRERANNO AL MIO ALTARE E BEATI I FEDELI NAPOLETANI CHE VI FARANNO LA COMUNIONE NEL SABATO SEGUENTE LA MIA INCORONAZIONE” il sabato successivo al 30 dicembre di ogni anno, il c.d. SABATO PRIVILEGIATO. Nel Castello, quindi, dopo secoli di perdizione, di delitti efferati, di tradimenti, di congiure, nel Castello divenuto Tribunale e luogo di dolore, apparve la Madonna che si legò attraverso Don Placido, ai Napoletani. Il Miracolo, il culto religioso, la Chiesa.

Di miracoli ne accaddero molteplici, mi piace ricordarne, però, un altro, che potremmo definire laico, ovvero definire giuridico. Si perché durante il ventennio fascista, leggi razziali promulgate, Ordini Forensi piegati a norme che pretendevano eliminare del tutto la figura dell’Avvocato Libero Professionista, dell’Avvocato eloquente, maturatasi negli anni precedenti (per intenderci era l’epoca in cui gli Avvocati venivano definiti “fossili sociali”) la famosa MASCHIA AVVOCATURA (definizione di Aldo Vecchini, esponente di spicco del sindacalismo forense fascista) in particolare quella napoletana, con i mezzi a disposizione, con la immensa cultura giuridica che caratterizzava all’epoca tutti gli esponenti di spicco degli Ordini e delle Associazioni Forensi, pur se fascisti, si oppose strenuamente al disegno di comprimere la libertà del professionista, la libertà dell’Avvocato; si oppose strenuamente all’applicazione del maledetto Rdl n. 1728 del 17.11.1938Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, poi convertito nella legge n. 274 del 5.1.1939.

Gli avvocati ebrei furono divisi in due gruppi, il primo formato da coloro che, vantando benemerenze fasciste ed avendo ottenuto la c.d. discriminazione, venivano inseriti in “elenchi aggiunti”, delle vere e proprie appendici agli albi ed avrebbero potuto “salvo le limitazioni” continuare ad esercitare. Il secondo formato dagli avvocati ebrei non discriminati, inseriti in elenchi “speciali”, che avrebbero potuto poi lavorare solo per clienti “appartenenti alla razza ebraica”.

L’inserimento in uno dei due elenchi era di per se tragico, diversamente tragico, ma a ciò si aggiungevano una serie di limitazioni che trasformavano l’Avvocato ebreo in un senza lavoro.

Inutile dire che molti Avvocati ebrei, soprattutto quelli privi di benemerenze fasciste, preferirono cancellarsi dagli albi, piuttosto che richiedere l’iscrizione negli elenchi speciali, producendo nuovamente tutta la documentazione necessaria per l’iscrizione di un novellino.

Intanto accadde un miracolo, il 23 gennaio 1940 Vecchini sollecitò i Sindacati locali a comunicrare sollecitamente e improrogabilmente entro i primi giorni di febbraio gli elenchi, le cancellazioni effettuate, e ciò anche al fine di provvedere alla radiazione dall’albo dei cassazionisti. Tutti obbedirono, tranne il Sindacato napoletano, presieduto da Nicola Sansanelli, convinto fascista.

Sansanelli avviò un carteggio con Vecchini e con altri gerarchi, riuscendo a ritardare oltremodo la tanto attesa comunicazione degli elenchi. Alla fine “solo” 4 Avvocati Napoletani di fede ebraica furono cancellati, anche se intorno a loro si aprirono procedimenti e/o carteggi strumentali e dilatori che resero singolare la condotta degli organismi forensi napoletani, rendendoli invisi alle autorità romane. Di quei 4, il prof. avv. Ugo Forti, pochi mesi dopo, fu reintegrato per meriti accademici e professionali, l’avv. Raffaele Archinvolti e chi ne assunse la difesa, invece, diede vita ad un vero e proprio palleggio/carteggio tra autorità locali e centrali, tanto da subire, le prime, molteplici formali rimproveri. Gli Avvocati Napoletani si strinsero a coorte e forse, pur non essendo pronti alla morte, fecero in modo di ridurre veramente al minimo i danni. Tutto questo viene narrato e descritto dalla prof. Antonella Meliconi in un libro bellissimo, La maschia avvocatura, dove molto chiaramente sotto l’aspetto della qualità della conservazione archivistica vengono esaltati e ringraziati i soli Ordini di Napoli e Bologna, mentre sotto l’aspetto della “resistenza”, in forma tutta particolare, capuana se mi consentite, viene “salvato” solo l’Ordine ed il Sindacato napoletano. La Meliconi, poi, nei ringraziamenti, elogia Giuliano Capecelatro ed il personale tutto dell’Ordine napoletano, per la gentilezza, la disponibilità, la preparazione.

Oggi il Miracolo è sicuramente rappresentato da una meno nobile forma di resistenza, non devono salvarsi vite umane, bensì la memoria, un Castello, ed è per questo che ogni mattina dell’anno, dalla fatidica chiusura, prima di raggiungere la prigione d’acciaio, un manipolo di nostalgici operativi si incontra in Barberia, rendendo viva la presenza nel Castello e fuori dello stesso, facendo in modo che il tutto non muoia, anzi possa risorgere a nuova vita.

Non a caso si tratta di uno dei vertici del c.d. triangolo magico, il manipolo si forma intorno alle 8,00 del mattino, saluta i Vigili Urbani, la Polizia di Stato, gli impiegati postali, rimasti anche loro a guardia non solo di un ricordo, dopodiché amicizia e niente più: Lello Bertolini, Lorenzo Fusco, Roberto Fiore, Sergio Mannato, Giovannino Benincasa, Nello Caserta, Salvatore Orso, Lorenzo e Geppino d’Avino, Mario Cinque, Autiero Salvatore, Francesco Caia, Edoardo Di Natale, Vincenzo Rizzo, Pippo di Nola, Carmine Pirozzi, Antonio e Luigi di Micco, Antonio Jervolino, Patrizio ed Enzo Franco, Pasqualino Ciardi, Franco Russo, Luigi Colangelo, Luigi Cavalli, Luigi Iossa, Mario Cianci, Antonello Cioffi,

Amici miei carissimi, ci vediamo domani e che la Madonna vi accompagni.

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avv. Roberto Fiore, Presidente dell’Ente Biblioteca De Marsico, avv. Francesco Russo – l’autore, avv. Alessandro Gargiulosegretario dell’Associazione Officina Forense

  a cura di Redazione

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