Quante volte in ambito della pratica giuridica (dal singolo cliente alle questioni legate alla mediazione familiare o alle procedure di divorzio) si ha a che fare con i termini indicati nel titolo di questo articolo? Domanda retorica: praticamente, sempre!
Nelle relazioni umane, e nella riflessione psicologica almeno degli ultimi quarant’anni, assertività ed aggressività sono diventati elementi fondamentali per quanto concerne l’espressione comportamentale e simbolica di ognuno di noi.
Ma perché è così importante riconoscerne le differenze? Nel nostro vivere quotidiano e nella pratica professionale di molti di noi, acquisire la capacità di differenziare questi aspetti del modo di relazionarsi, proprio e/o altrui, potrebbe determinare per buona parte l’avvicinarsi o meno all’obiettivo che vogliamo raggiungere. Prima di tutto andiamo a delineare i contorni di tali termini.
L’origine latina del termine assertività si ricollega direttamente al concetto di affermazione di sé e di autostima, ovvero la possibilità/capacità di esprimere efficacemente i propri pensieri ed emozioni senza la necessità di aggredire il proprio interlocutore ignorandone i diritti, ma operando in modo tale da tutelare i propri interessi senza cedere ad un’ansia eccessiva che potrebbe condizionare la nostra sincerità. In tal senso, e in ambito strettamente psicologico, si tende a porre l’assertività come punto di equilibrio tra la tendenza ad un comportamento passivo e remissivo (da una parte) ed uno stile di comportamento aggressivo (ovviamente, per semplificare, qui non terremo conto del comportamento passivo-aggressivo, oggetto di futuri articoli).
In cosa consiste quindi l’aggressività? In psicologia viene definita come uno stato di tensione emotiva che si esprime comunemente in comportamenti lesivi e di attacco di qualsiasi tipo (potremmo andare dallo stalking alle forme prevaricanti di potere sul posto di lavoro individuabili con il termine mobbing) e rivolti a sé oppure agli altri. In ambito freudiano il confronto con l’aggressività è praticamente fondante: si va dalle prime riflessioni sul rapporto tra il concetto di odio e quello delle pulsioni dell’Io fino alla definizione del rapporto tra Eros (pulsione di vita) e Thanatos (pulsione di morte). Proprio quest’ultimo aspetto, quello della parte distruttiva (necessaria, d’altronde, per nuove costruzioni) e di “fine”, attirò l’interesse di uno dei maestri della psicologia umanistica degli anni settanta del secolo scorso: Erich Fromm. Egli distinse, appunto, una aggressività necessaria, spontanea, passionale e volta all’adattamento biologico ed all’armonia (in possesso di ogni forma di vita complessa del nostro pianeta), da una altra aggressività volta esclusivamente al preservare quella che Hegel chiamava “la seconda natura” dell’essere umano: la propria immagine sociale, con le sue sicurezze ed i suoi privilegi (quello che a me piace definire con il termine “maschere sociali” o che Donald Winnicott definiva “Falso Sé”).
Come abbiamo fino ad ora visto, potremmo sintetizzare il tutto nella immagine di una bilancia simbolica il cui baricentro è costituito dalla assertività, dal nostro più sincero e profondo Sé (volto a quello che Fromm definiva come aggressività buona o, come a me piace definire, concretezza vitale), mentre da una parte abbiamo un atteggiamento passivo e dall’altra un atteggiamento aggressivo comunemente inteso. Immaginiamo ora di avere davanti a noi una persona con cui entriamo in interazione verbale e/o fisica. Potremmo quasi sovrapporre ad essa l’immagine della bilancia sintetizzata sopra. Cosa potremmo osservare? Una continua oscillazione tra la sua bilancia e la nostra bilancia comportamentale. Una tale oscillazione determinerà quasi sicuramente le parole che useremo, il tono con cui esse verranno espresse o addirittura le azioni fisiche che compiremo o di cui saremo oggetti da parte del nostro interlocutore.
Perché parlo di oscillazione? Perché i fattori in gioco sono sempre talmente tanti che i pesi sui piatti della bilancia cambiano quasi ad ogni processo di interazione. A volte, infatti, può addirittura anche bastare un vento fresco che entra in una stanza carica di tensione emotiva a determinare gli esiti di una azione legale o, addirittura, di una terapia di coppia.

Si può facilmente comprendere, ora, come la padronanza di sé stessi diventi fondamentale nel caso dell’azione di un professionista che opera con altri esseri umani. Equilibri così labili richiedono persone equilibrate che sappiano guardare gli altri, la loro bilancia emozionale, senza per questo avere la fretta di imporre il proprio equilibrio alla situazione, senza la fretta di giudicare (mi sovviene ora l’immagine del dio Anubi che conduce l’uomo innanzi ad Osiride, pesandone il cuore su di una bilancia mentre il dio Thot, come cancelliere, trascrive il risultato del giudizio divino).

È quindi una Danza, come quella di Shiva Nataraja, capace di rappresentare l’intero universo all’interno di una semplice stanza: una frazione olografica di un macrocosmo sconfinato.
In conclusione, a tutti coloro che leggono queste mie parole voglio lasciare una esortazione: entrate in risonanza con voi stessi, non allontanate né i pensieri passivi-accoglienti né quelli aggressivi-distruttivi, teneteli di conto ed ascoltateli… così facendo riuscirete più facilmente ad essere diapason per i vostri interlocutori, con i quali risuonerete senza, per questo, avere la necessità di convincerli delle vostre ragioni.
a cura di Salvatore Rotondi