Elogio di Gennaro, il figlio dimenticato di Giambattista Vico


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Gian Battista Vico

Pasquale, Vincenzo, Salvatore, Gennaro: i nomi che piú corrono sulle bocche delle madri di Napoli.

A Posillipo, a Capodimonte, sulla collina d’Antignano, al Mercato, ai Tribunali, alla Sanità…E, lui, appunto, si chiamava Gennaro, che, poi, è il nome del santo protettore della città. Aveva fermato la lava al Ponte della Maddalena, San Gennaro, e s’era dato da fare contro la peste del 1656. Per questo, mille, diecimila, centomila madri imponevano il suo nome ai pargoli.

Era nato in un tugurio di Spaccanapoli, quell’interminabile viscere vischioso lastricato di storie ora gloriose ora infami, Gennaro, come tanti altri Gennaro che nascevano, crescevano e morivano in quel budello di molta povertà e appena lambito dal cielo. Però, Gennaro sapeva di latino, così che prima era andato a sostituire in cattedra il padre – ch’era ammalato e stanco per il “continovo sforzo” impiegato nel “lavorare le deboli opere del suo [mio] affaticato ingegno” -, poi, lui stesso diventò titolare della cattedra di Retorica.

Alla fine, Gennaro morì nonagenario e povero, in una povera casa all’angolo del vicolo Campanile con i Gradini de’ Santi Apostoli a San Giovanni a Carbonara: la stessa povera casa dove sessant’anni avanti, povero e lasciando debiti per cento ducati, era morto il padre prima che potesse veder stampata la sua ultima “opera lavorata” – la terza impressione dei Principj di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle Nazioni -, e che prima d’essere portato al sepolcro era stato vittima di un grottesco, anzi osceno parapiglia provocato dai confratelli della Congregazione di Santa Sofia, che disputavano ai docenti del corpo accademico il diritto di portare le gale della coltre mortuaria.

Era stato, insomma, Gennaro, un oscuro professore nell’esercito di oscuri professori della “Regia Neapolitana Studiorum Universitas”, del quale, com’è nella natura delle vicende umane, nessuno si sarebbe piú ricordato.

È vero che il padre l’aveva definito puer ingeniosus; ma, si capisce, il padre aveva cuore di padre…Ed è anche vero che il dottissimo domenicano Nicola Concilia, docente di metafisica nell’Ateneo di Padova, scriveva al vecchio maestro di Retorica: “mi riverisca quel suo figliuolo che intendo essere di una grande espettazione”; mentre anni dopo il Cappellano Maggiore del Regno di Napoli (il Rettore Magnifico dei giorni nostri) Celestino Galiani inviava al sovrano una consulta in favore di Gennaro, dicendolo “giovane d’abilità, che nell’esercizio della cattedra incontra tutto l’applauso”.

Ma, alla fine, purtroppo, è pure vero che su Gennaro, appena morto e seppellito, calò la coltre plumbea del silenzio e dell’oblio. D’alto canto, è comprensibile: la personalità del candido e onesto professore doveva fare i conti con quella immensa di Giambattista, il padre. Per cent’anni e piú a nessuno balenò l’idea che Gennaro dovesse aver prodotto qualcosa di rilievo sul piano teorico avendo tenuto cattedra per oltre un quarantennio. Non se ne occupò Nicolò Tommaseo, il quale raccogliendo le idee “con reverenza lieta” scrisse pagine memorabili, partecipi e appassionate su Giambattista Vico e il suo secolo; né Giuseppe Ferrari, curatore della raccolta quasi completa delle opere vichiane, e neppure Carlo Cattaneo, Terenzio Mamiani, Bertrando Spaventa.

1.jpgDovevano trascorrere cent’anni perché qualcuno si risolvesse a esplorare gli scaffali d’archivi e biblioteche alla ricerca di opere “dell’eruditissimo accademico pensionario di terza classe Don Gennaro Vico, degno figliuolo dell’immortale autore della Scienza Nuova“, e, aggiungo io, unico filosofo moderno riconosciuto come padre nobile delle culture dominanti fra l’Ottocento e il Novecento: non avevano, forse,  tentato di attrarlo nella rispettiva orbita i cattolici, i laici, i liberali, i marxisti, i monarchici, i nazionalisti, i socialisti e via dicendo? Per costoro, insomma, un pensatore buono…per tutti gli usi.

Perfino Benedetto Croce – al quale si deve la fondamentale monografia intitolata La filosofia di G.B.Vico, pubblicata nel 1911, in cui seppe magistralmente rendere evidenti due momenti d’essenziale importanza nel pensiero del filosofo “che giammai rise”, l’innovatrice teorizzazione della storia e la funzione centrale della fantasia, lasciò nell’ombra del grande padre il professore Don Gennaro Vico.

Ma, cinque anni dopo la svolta: s’apre una finestra e da essa, per la prima volta, è dato scrutare il volto del candido docente di Retorica: Giovanni Gentile (in questo, sarà seguito dal Nestore dei crociani, Fausto Nicolini) si dà a scrivere, ancorché intrise di riserve, preziose pagine: Il figlio di G.B. Vico e gl’inizii dell’insegnamento di letteratura italiana nell’Università di Napoli.

“Dev’essere stato – afferma l’antico allievo di Donato Jàja, filosofo hegeliano seguace di Spaventa, docente alla Normale di Pisa – un ottimo insegnante della sua materia; e le idee didattiche accennate nelle sue Orazioni Inaugurali che ci sono giunte confermano tale giudizio. Ebbe anche dottrina classica e acume non volgare: ma fu modestissimo e il suo titolo maggiore restò sempre quello di essere il figliuolo di G.B. Vico. Né egli avrebbe ambito ancora di più, conscio, sebbene confusamente, della paterna grandezza”.

Com’è subito chiaro, un giudizio in bilico fra l’immedesimazione e il distacco, che al di là del riconoscimento cronachistico e quasi protocollare dei meriti didattici, non persegue l’analisi degl’interessi teoretici e delle opinioni dommatiche di Gennaro Vico, né prospetta il problema del loro rapporto con la tormentata dinamica storica della cultura accademica del tempo, soffocata nella morsa della conservazione istituzionale e il riformismo ispirato al sapere europeo. Sul punto, non è inutile ricordare quanto aspro fosse, fin dai primi anni del Settecento, il dibattito sull’organizzazione e le scelte degli studi universitari: da una parte coloro che impregnati di spirito cartesiano proponevano progetti riformistici entro una visione problematica del sapere, dall’altra i sostenitori (fra costoro, in prima fila, monsignor Don Diego Vincenzo Vidania) dell’antica ratio studiorum e la validità delle tradizionali auctoritates.

E, dunque, è anche in relazione alla cultura settecentesca (naturalmente, non soltanto napoletana, bensì anche europea) che non sarebbe mero esercizio di scuola riaprire il discorso iniziato da Gentile, il filosofo dell’attualismo, quando, fra gli altri argomenti, s’occupa dell’inedita orazione inaugurale pronunciata nel 1756, Dissidium linguae ab animo factum praecipuum corruptae eloquentiae causam fuisse, come documento dell’indirizzo culturale di Gennaro Vico.

Il vecchio professore, che aveva perfetta conoscenza e faceva uso sapiente del latino classico, in quell’orazione si faceva sostenitore, fra gli altri temi, della più corretta estetica affermando che l’eloquenza scaturisce dal pieno possesso dell’argomento, insistendo sull’importanza dei contenuti, combattendo il mero studio della forma fine a se stessa, i virtuosismi stilistici, le minuzie grammaticali, i sofismi sintattici.

Fuor d’ogni dubbio, qui s’avverte l’eco del magistero paterno; non di meno questo mai potrebbe legittimare la congettura di un’articolazione dottrinaria appena subalterna e ripetitiva, ed è agevole capire da che parte stesse Gennaro Vico nell’ordalia tra i sostenitori del vecchio sapere paludato e inutilmente conservatore, e gli alfieri del pensiero aperto alle conquiste della rivoluzione scientifica e culturale italiana ed europea.

Alla fine, son persuaso che Don Gennaro Vico apparirà pensatore soverchiato, sì, dalla personalità gigantesca del padre, ma non indegno di lui, perché capace di un’ammirevole speculazione teorica autonoma.

a cura di Salvatore Maria Sergio

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