L’azione disciplinare che, colpendo l’avvocato a seguito di sanzione irrogata dal giudice penale, si pronuncia sui medesimi fatti e irroga una sanzione non costituisce bis in idem. Così la Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, con la sentenza n. 29878/18, depositata il 20 novembre 2018.
Il caso. Un avvocato era stato condannato con sentenza penale definitiva per la condotta di corruzione giudiziaria. Detta sentenza, oltre che una condanna alla reclusione, aveva comportato anche l’irrogazione di una sanzione disciplinare della sospensione dell’iscrizione dall’albo degli avvocati.
A seguito di tale sentenza il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati presso il quale era iscritto il professionista aveva principiato un autonomo procedimento disciplinare culminato poi con la radiazione del legale.
Il succitato aveva depositato ricorso presso il CNF per ottenere un riesame della questione, ma questo organo giudiziario aveva confermato l’esito del primo procedimento. Alla luce della duplice soccombenza l’avvocato agiva in sede di legittimità depositando ricorso in Cassazione volto all’annullamento della precedente decisione.
Il ricorso in Cassazione veniva articolato in cinque doglianze. Con il proprio articolato ricorso l’avvocato, assistito da due colleghi, istava per l’annullamento della decisione del Consiglio Nazionale Forense per cinque motivi di diritto.
In prima battuta egli lamentava come il CNF avesse violato la norma vigente, ratione temporis, per i procedimenti relativi agli illeciti deontologici, e in particolare l’art. 48 comma 1, r.d. n. 37/1934.
Secondo il ricorrente il CNF avrebbe presentato un capo di imputazione del tutto vago e privo del dovuto carattere di specificità, di tal che esso avrebbe dovuto essere più volte riformulato in quanto affetto da «evidenti errori […] benevolmente definiti […] materiali» ed essendo la condotta ascritta relativa ad un’altra fattispecie penale oggetto di una sentenza a dire del ricorrente non richiamata nel procedimento in oggetto.
Con la seconda doglianza il ricorrente rilevava la presunta nullità della sentenza impugnata per «mancata adozione di una nuova delibera di apertura del procedimento e/o mancata notifica dell’atto di citazione, a seguito della riformulazione del capo d’incolpazione intervenuta alla udienza del […]».
Secondo l’avvocato, infatti, il capo di imputazione sarebbe stato ampiamente modificato e anzi oggetto di “repentina amputazione” tale da non avere consentito allo stesso di preparare la difesa, procedendo all’immediata discussione.
Il terzo motivo di ricorso era relativo al presunto mancato accertamento dell’intervenuta prescrizione del proprio illecito disciplinare, ex art. 51, r.d.l. n. 1578/1933.
Il ricorrente rilevava, quindi, come l’illecito oggetto di contestazione fosse stato contestato «6 anni, 9 mesi, 4giorni dopo il passaggi in giudicato della condanna penale» e lamentava come il CNF abbia omesso di considerare tale circostanza e abbia rilevato come la prescrizione nel caso in oggetto sarebbe decorsa dal passaggio in giudicato della stessa sentenza penale e non dai fatti reato che furono giudicati da questa.
Il quarto motivo di ricorso eccepiva la violazione del principio del c.d. ne bis in idem, alla luce dell’art. 4 del Protocollo 7 della Cedu, e in particolare affermava come, stante l’irrogazione nel procedimento penale di una sanzione accessoria della sospensione dell’iscrizione all’Ordine degli Avvocati, allora il nuovo procedimento esclusivamente di carattere deontologico costituirebbe un bis in idem, ossia un illecito nuovo giudizio sulla medesima condotta e quindi inaccettabile.
Il quinto e ultimo motivo del ricorso depositato è denunciava la violazione dell’art. 21 del codice deontologico del 31 gennaio 2014, nella parte in cui egli sarebbe stato colpito da un illecito disciplinare anche se nella condotta corruttiva per la quale era stato condannato in sede penale avrebbe agito solo da «detentore [del denaro utilizzato per fini corruttivi, n.d.a.] per conto terzi» e non avrebbe commesso alcun illecito in qualità di avvocato.
La Cassazione rigetta integralmente il ricorso e conferma la radiazione dell’avvocato dall’ordine professionale. La Cassazione a Sezioni Unite rigettava il ricorso summenzionato. In particolare la Suprema Corte rilevava come tutti i motivi oggetto del ricorso fossero in parte inammissibili e in parte infondati.
Rilevavano gli Ermellini come i primi due motivi di ricorso, esaminati congiuntamente, fossero da rigettare in quanto – a differenza di quanto affermato dal ricorrente – nessuna violazione del diritto alla difesa dell’incolpato si fosse verificata nel procedimento disciplinare.
Nonostante la modifica dei capi di imputazione, infatti, l’avvocato sapeva di doversi difendere e si era coerentemente difeso, senza che quindi sia in alcun modo fosse stato violato il suo diritto alla difesa.
Affermava in fatti la Cassazione che «Orbene, attesa la mera riproposizione da parte dell’odierno ricorrente delle doglianze già sottoposte all’attenzione del CNF e da questo non accolte, va ribadito che il mero stralcio di una parte del capo d’incolpazione sovrabbondante, tra l’altro relativo a fatti ampiamente noti sin dall’inizio del procedimento, esclude invero in radice l’integrazione della prospettata violazione del diritto di difesa e del contraddittorio».
Il procedimento disciplinare forense, aggiungeva la Cassazione, non necessita di una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito.
Il terzo motivo di ricorso, invece, veniva rigettato in quanto la fattispecie non poteva essere considerata prescritta in quanto, ratione temporis, all’incolpato non sarebbe stato necessario applicare il nuovo e più mite regime di prescrizione di cui alla l. n. 247/2012, ma la precedente formulazione che prevedeva un termine di prescrizione più ampio.
Il principio di retroattività della “lex mitior” non avrebbe riguardato infatti il termine di prescrizione, ma solo la fattispecie incriminatrice e la pena.
In merito alla doglianza relativa al ne bis in idem, similmente, questa veniva rigettata in quanto «la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicché non è coerente con il sistema pervenire ad una loro identificazione» e che «l’azione disciplinare è invero promossa indipendentemente dall’azione penale relativa allo stesso fatto, e ben può il procedimento disciplinare proseguire anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria».
Nel procedimento disciplinare è infatti tutelata anche l’immagine della categoria legale e, nel caso in oggetto, l’altissimo profilo e notorietà del caso mediatico scoppiato a seguito della condotta di corruzione giudiziaria tenuta dall’avvocato ricorrente aveva legittimato il CNF a procedere alla radiazione dello stesso anche a tutela dell’immagine dell’intera categoria professionale.
Concludeva infatti la Cassazione che «l’aver concorso alla compravendita di atti giudiziari per giungere ad un risultato diverso se non opposto da quello che avrebbe dovuto essere il frutto di un corretto percorso processuale è di tale gravità che non vi dovrebbe neppure essere necessità di sottolineare l’accentuato disvalore di una condotta corruttiva realizzata dai principali interpreti della funzione giudiziaria finalizzata a comprometterne la correttezza di esercizio».
Il quinto e ultimo motivo di ricorso veniva rigettato in quanto considerato vertente su una circostanza fattuale la cui analisi non poteva essere validamente demandata al giudice di legittimità.
Le Sezioni Unite della Cassazione, quindi, rigettavano integramente il ricorso e confermavano quindi la radiazione dell’avvocato dall’Ordine Professionale.