La causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto non è applicabile al reato di esercizio abusivo di una professione perché detta fattispecie di reato presuppone il compimento di condotte continuative e plurime. Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, con la sentenza n. 52619 depositata il 22 novembre 2018.
L’ipotesi di reato al vaglio degli Ermellini è quella, frequentemente ricordata nelle cronache, dell’esercizio abusivo di una professione. I giornali riportano ogni tanto storie di varia consistenza: il dentista mai laureato, il commercialista farlocco, eccetera. Questa volta tocca alla professione forense: l’usurpazione del titolo e l’abusivo esercizio dell’attività di avvocato viene concretizzata attraverso l’allestimento di uno studio legale “standard”: qualche scrivania, il computer, la stampante e una bella targa con tanto di nome, cognome e titolo professionale. Completavano il quadro d’insieme i biglietti da visita, anch’essi riportanti l’inequivocabile sigla “Avv.” e il timbro. Con un corredo del genere il (finto) legale si presentava ad un cliente e ne riceveva un mandato professionale finalizzato al recupero di alcuni crediti.
La messa in scena vale al nostro imputato ben due contestazioni: la prima poco ci interessa sotto il profilo scientifico (si tratta dell’appropriazione indebita della documentazione fornita dal cliente e mai restituita). La seconda, invece, invita a riflettere: abusivo esercizio di una professione. La norma incriminatrice rispecchia lo schema del reato comune di mera condotta: il presupposto è che si ponga in essere l’esercizio di una professione per la quale si richiede una “speciale abilitazione” senza possedere i titoli necessari (e solo il Cielo – insieme ai praticanti avvocati – sanno quanto è complicato ottenere quelli indispensabili per esercitare l’attività forense!). Ora, è evidente che il più spinoso problema ermeneutico consiste proprio nell’attribuire un significato specifico al verbo “esercitare”: occorre un’attività continuativa? Basta un unico atto riservato alla professione? Come ci si regola di fronte a quegli adempimenti che sono normalmente appannaggio del professionista legale ma che, in fondo, possono essere posti in essere anche da altri? La Cassazione a Sezioni Unite, pronunciandosi nel 2012, ha tagliato la testa al toro: integra il reato di esercizio abusivo di una professione non soltanto l’occasionale e persino gratuito compimento di un atto attribuito in via esclusiva ad una professione, ma anche il compimento sine titulo di atti che, pur non essendo riservati a quella specifica professione, sono “univocamente” ritenuti di competenza specifica del professionista, laddove questi risultino frutto di un’attività continuativa e non gratuita. Il senso della pronuncia, sotto l’ultimo aspetto, è chiaro: esercitare con continuità specifiche attività ingenera l’idea che il soggetto in questione sia munito delle abilitazioni previste dalla legge.
A parte le doglianze in merito alla ritenuta sussistenza del reato di esercizio abusivo – dichiarate manifestamente infondate – l’aspetto più interessante della pronuncia in commento riguarda l’invocata causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, della quale si chiedeva l’applicazione sulla scorta della ritenuta occasionalità della condotta. Anche questa censura cade nel vuoto: gli Ermellini, richiamando un precedente del 2017, chiariscono che l’ipotesi di reato dell’esercizio abusivo di una professione è esclusa dalla sfera d’azione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Come sappiamo, questa scappatoia dalla sanzione penale, nata con l’intento di favorire la deflazione del contenzioso sulle vicende bagatellari, presuppone una valutazione attenta delle caratteristiche della condotta criminosa e del danno o del pericolo ad essa ricollegato: la prima deve sostanzialmente restituire un quadro d’insieme di modesta caratura criminale, mentre i suoi effetti dannosi o pericolosi devono chiaramente apparire esigui.
Da ciò ne discenderà un giudizio di particolare tenuità dell’offesa al bene giuridico protetto dalla norma. Ora, altri requisiti a parte (primo tra tutti il limite edittale non superiore a cinque anni di pena detentiva), l’aspetto più importante è quello della necessaria non abitualità del comportamento illecito. Proprio la citata sentenza del 2017 pone l’accento sulla carenza di questo ulteriore tassello valutativo nella condotta di abusivo esercizio di una professione: chi, infatti, se ne rende responsabile tiene una condotta che naturalisticamente non si esaurisce in un unico atto, ma ne prevede indispensabilmente più d’uno. La decisione, sebbene risponda ad una certa innegabile logica, si potrebbe prestare però ad una critica: cosa si intende per più “atti”? Se accediamo all’idea che questi coincidano con “movimenti umani” allora la pronuncia ha un senso che potrebbe reggere, anche se potrebbe apparire perfino paradossale (il finto professionista che riceve il suo primo cliente-vittima e si alza dalla sedia per aprirgli la porta del finto studio compie più “atti” solo perché esegue numerosi gesti?). Se, invece, col termine “atti” si intendono quelli tipici della professione abusivamente esercitata, l’orientamento richiamato non è immune da censure: come si può escludere che, nel caso specifico, l’atto tipico sia un atto isolato proprio perché esso è il primo di una possibile serie che, nel caso concreto, non viene perfezionata?