ISTANZA DI SOVRAINDEBITAMENTO – INAMMISSIBILITÀ – RIPRESENTAZIONE


Corte_suprema_di_cassazione_a_RomaLa Cassazione chiarisce un tema delicato nell’ambito della disciplina del sovraindebitamento.http://www.dirittoegiustizia.it/images/spacer.gif

Con la sentenza del 26 novembre 2018, n. 30534 la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione chiarisce un tema delicato nell’ambito della disciplina del sovraindebitamento legato alla possibilità da parte del debitore di presentare una nuova proposta di piano o di accordo o di liquidazione dei beni dopo che una prima domanda è stata dichiarata inammissibile dal giudice. 

Ed infatti, in base all’art. 7, comma 2, lett. a), legge n. 3/2012 costituisce requisito di ammissibilità alle procedure disciplinate dalla legge la circostanza che il debitore non abbia «fatto ricorso, nei precedenti 5 anni, ai procedimenti». 

La questione che si è posta, però, è stata quella di capire quale sia il significato da attribuire all’espressione “fare ricorso” alle procedure di sovraindebitamento.
Ed infatti, quella norma copre sicuramente l’ipotesi del debitore che abbia ottenuto l’omologazione da parte del giudice ovvero abbia proceduto al piano di liquidazione ovvero l’ipotesi in cui, pur essendoci stata l’omologazione o l’apertura, il debitore non abbia poi adempiuto ovvero vi sia stata un’ipotesi di chiusura anomala della procedura.
Ma potrebbe essere accaduto che – e qui risiedeva il punto critico rispetto al quale si sono registrate le maggiori problematiche pratiche – il debitore avesse depositato il ricorso per presentare la proposta di piano o di accordo ovvero chiesto la liquidazione dei beni e, successivamente, (a) il debitore stesso avesse rinunciato alla domanda; (b) la domanda fosse stata dichiarata inammissibile dal giudice in limine litis (e, cioè senza neppure emettere il decreto per l’assenza di requisiti di inammissibilità); (c) la domanda fosse stata dichiarata inammissibile dopo l’emissione del decreto di fissazione dell’udienza e, quindi, senza omologa. 

In presenza di decreti di inammissibilità delle domande una volta proposto reclamo (ovvero pronunciati dal giudice del reclamo) il debitore proponga ricorso per cassazione.
Ricorso che, però, viene generalmente dichiarato inammissibile in quanto non ricorrono i presupposti di cui all’art. 111 Cost. : ed infatti, a tacere d’ogni altra considerazione, la Cassazione non ritiene definitivo quel decreto siccome al debitore è, comunque, consentito ripresentare la domanda.
Sino ad oggi l’esame della giurisprudenza prevalente della Cassazione consentiva di poter affermare che il debitore avrebbe potuto presentare una nuova domanda «benché nei limiti temporali previsti dalla normativa» (così, ad esempio, Cass. n. 6516/2017), con la conseguenza che, se il debitore avesse beneficiato degli effetti della legge, il debitore avrebbe dovuto attendere il termine di cinque anni per presentare una nuova domanda.
Il punto controverso, però, era individuare quali fossero gli effetti dei quali il debitore avesse, o no, beneficiato proprio perché spesso la giurisprudenza non prendeva espressa posizione su quali fossero gli effetti rilevanti.
Ed infatti, quegli effetti avrebbero potuto anche essere gli effetti “cautelari” derivanti dal decreto di fissazione di udienza (come, ad esempio, la sospensione di un procedimento esecutivo o il divieto di azioni cautelari ed esecutive) sicché l’inammissibilità successiva a quel momento (e, quindi, quella di cui alla lettera c) di cui prima) avrebbe potuto determinare l’inammissibilità di una nuova domanda.
In almeno un caso, però, la Cassazione ebbe modo di precisare che la preclusione temporale a carico del debitore sarebbe scattata soltanto ove lo stesso avesse fruito «degli effetti pieni dell’istituto stesso nel quinquennio anteriore» (così Cass. Civ. n. 1869/2016). 

Oggi, a seguito di quest’ultima sentenza della Cassazione sembra che possiamo dare una risposta più decisa alla domanda relativa a sapere quali siano gli effetti di cui il debitore deve aver beneficiato per far scattare l’inammissibilità della nuova domanda.
«Tali effetti – afferma la Suprema Corte – giocoforza conseguono all’emissione di un decreto di apertura, di modo che, in presenza di un provvedimento che, come nel caso di specie, abbia dichiarato inammissibile la domanda per carenza dei necessari presupposti, il debitore ben può presentare una nuova domanda senza dover attendere il decorso dei 5 anni previsti dalla norma sopra richiamata».
Conclusione, questa, che per la Suprema Corte è coerente con la ratio dell’art. 7, comma 2, lett. a) e, cioè, «evitare condotte generatrici di ripetute esposizioni debitorie a cui far fronte con un sistematico ricorso alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento».
Ne deriva che – volendo “unire” i principi di quest’ultima sentenza e di quella del 2016 – il principio ricavabile è che il decreto di inammissibilità preclude la riproposizione della domanda nel limite del quinquennio a condizione che sia stato emesso dopo l’apertura della procedura e che il debitore abbia fruito degli effetti pieni dell’istituto.
Con l’ulteriore conseguenza che – se è corretta l’interpretazione suggerita – le ipotesi “dubbie” di cui abbiamo detto in apertura (e, cioè, quelle di cui alle lettere a), b) e c) non determinano, ex se, nessuna preclusione temporale, consentendo la libera riproposizione della domanda di accesso al sovraindebitamento senza incappare nel limite di cui alla lettera a) del comma 2 dell’art. 7.

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