Nel caso in cui un soggetto sia destinatario di una misura di sorveglianza speciale, sospesa per effetto della detenzione di lunga durata del predetto, non sussiste il reato di violazione degli obblighi derivanti dalla misura nel caso in cui quest’ultima, nuovamente applicata al momento di cessazione della detenzione, non sia stata preceduta dalla rivalutazione della attualità e persistenza della pericolosità sociale del prevenuto. Così ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Penali, con la sentenza n. 51407/18, depositata il 13 novembre 2018.
Sorvegliato speciale… a intermittenza. Il titolo di questo paragrafo avrebbe probabilmente suscitato la virile disapprovazione di Sylvester Stallone, nerboruto interprete del (quasi) omonimo film. Paragoni cinematografici a parte, l’intermittenza della sottoposizione di un soggetto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza non è niente affatto rara nella quotidiana prassi applicativa. Il caso che ha dato lo spunto alle Sezioni Unite per intervenire con la pronuncia in commento origina dalla doppia condanna subita da un “prevenuto” che, già sottoposto a sorveglianza, veniva successivamente incarcerato per scontare un periodo di detenzione e, una volta libero, teneva una condotta in contrasto con gli originari obblighi impostigli in sede di prima applicazione della misura. Il giudice della prevenzione non si era preoccupato di rivalutare l’attualità della pericolosità sociale dell’imputato al termine del periodo di detenzione.
Il contrasto giurisprudenziale: che succede quando il prevenuto, dopo la detenzione, torna libero? L’argomento è rimasto, almeno fino ad oggi, al centro di un contrasto d’opinioni di non poco momento. Si tratta, in buona sostanza, di capire se la sospensione della misura di prevenzione durante la detenzione del prevenuto imponga al giudice, una volta che il prevenuto sia tornato in libertà, di valutare se lo stesso è ancora socialmente pericoloso oppure no. Le norme di riferimento ci dicono soltanto che la misura di prevenzione, durante la detenzione, rimane sospesa e che la stessa riprende il suo corso soltanto dopo l’espiazione della pena. Bene: su questo tessuto normativo è intervenuta nel 2013 persino la Consulta, che ha stabilito l’incostituzionalità della normativa in tema di prevenzione nella parte in cui non si prevede che, dopo la sospensione della misura a causa della detenzione del prevenuto, l’organo applicativo della stessa debba rivalutare anche ex officio la attualità del presupposto principale: la pericolosità sociale dell’interessato. Secondo un primo orientamento interpretativo, fatto proprio dalla Cassazione nel 2015, la misura di prevenzione personale deve considerarsi sospesa fino a quando il giudice competente ad applicarla non ne valuti nuovamente l’attualità. Per condurre questo giudizio occorrerà tener contro degli eventuali progressi, in termini di risocializzazione, compiuti dal prevenuto durante la detenzione. Ne consegue, a questo punto, che fino a quando non viene adottata questa valutazione, l’eventuale discostamento comportamentale dagli obblighi a suo tempo associati alla misura non può costituire reato.
L’orientamento meno garantista e la soluzione delle Sezioni Unite. Il filone di pensiero appena rappresentato, però, non è stato – fino ad oggi – incontrastato: una decisione della Prima Sezione della Cassazione del 2017 ha, infatti, affermato l’opposto principio secondo cui la mancata rivalutazione della pericolosità sociale del prevenuto non equivale a privare di concretezza applicativa la misura di prevenzione già sospesa per effetto della detenzione, con particolare riferimento alla sospensione derivante da sottoposizione del prevenuto a misura cautelare. Un terzo orientamento, anch’esso del 2017, sceglie una strada per così dire mediana, e stabilisce il principio secondo cui la valutazione della attualità della pericolosità sociale può avvenire anche incidentalmente, ossia nel contesto del procedimento penale per violazione degli obblighi associati alla misura stessa. Le Sezioni Unite, però, tagliano corto e scelgono il primo (e normativamente più coerente) orientamento: la rivalutazione autonoma della attualità della pericolosità sociale è condizione imprescindibile per fare sì che la misura riprenda vigore dopo un periodo di sospensione per detenzione. A far propendere per questa soluzione sono molti argomenti: intanto quello che impone la necessità di non tradire lo spirito della citata pronuncia della Consulta del 2013. Poi l’opportunità di dare spazio ad un giudizio di valutazione degli effetti ri o de-socializzanti prodotti dal periodo detentivo prima di far eventualmente riprendere corso alla misura. Ancora, gli Ermellini pongono l’accento sull’elaborazione giurisprudenziale della normativa in materia di prevenzione operata dalla Corte EDU, che ha più volte ribadito – ad esempio con la storica sentenza Labita c. Italia del 2000 – la necessità di accertare la permanenza, in corso di esecuzione, delle condizioni che giustificano l’applicazione di una misura di prevenzione. In ultimo, la soluzione individuata dalle Sezioni Unite si pone nel solco del rigoroso rispetto del tessuto normativo vigente dal 2011: se la detenzione per espiazione pena si è protratta per almeno due anni, dicono le norme oggi in vigore, la verifica della pericolosità sociale avviene ad opera del Tribunale anche d’ufficio. Chiaramente, da ciò ne consegue che se non si compie questo accertamento non potrà sanzionarsi penalmente la condotta difforme dagli obblighi di condotta associati alla misura di prevenzione già sospesa.