Postina® di Zanellato vince contro The Bridge: il regime probatorio nei giudizi di contraffazione e il fatto notorio


IMG_5099.jpgCon sentenza n. 5043/18 del 3 ottobre 2018, pubblicata in data 20 novembre 2018, nella causa tra il Gruppo Zanellato S.r.l. (appellante) e The Bridge S.p.a. (appellata), la Corte di Appello di Milano ha integralmente riformato la sentenza di I grado n. 12307/16.
La causa era stata instaurata nel 2014 dal Gruppo Zanellato, difeso dagli Avv.ti Celluprica e Fischetti dello Studio Legale Barzanò & Zanardo, per richiedere la contraffazione del noto marchio di borse Postina® da parte di The Bridge, che utilizzava il medesimo segno per contraddistinguere alcuni suoi modelli di borse.
The Bridge si difendeva invocando la descrittività del segno che, a detta della convenuta, non era dotato di carattere distintivo perché comunemente usato anche dagli operatori del commercio per contraddistinguere un modello di borse. A supporto di questa tesi la convenuta produceva, tra l’altro, alcuni annunci online (Ebay e Amazon) ed articoli di giornale nei quali veniva utilizzato, da alcuni privati e giornalisti, il termine “postina” per descrivere modelli di borse tra loro eterogenei.
Il giudice di prime cure, accogliendo la tesi di The Bridge, rigettava le domande di Zanellato ritenendo che il termine “postina” non fosse distintivo e univoco indicatore di origine del prodotto di parte attorea, bensì che “Il segno denominativo “Postina” è comunemente usato dagli operatori economici e, altresì, dai consumatori, per indicare borse”.
Tale considerazione era suffragata, secondo il Giudice di primo grado, da documentazione successiva al deposito della domanda di registrazione del marchio Postina® e da alcune ricerche effettuate online dal Giudice stesso.
Di conseguenza veniva dedotta la liceità della condotta della convenuta che avrebbe utilizzato il termine “postina” in modo descrittivo, per indicare una categoria di borse, al pari di altri termini, egualmente descrittivi di altre categorie, quali shopper, bauletto, tracolla.
Avverso la decisione di I grado proponeva appello il Gruppo Zanellato che invocava, inter alia, l’erroneità della sentenza per violazione dell’art. 13 c.p.i., degli artt. 115-116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c..
La Corte di Appello meneghina, con la sentenza in commento, accoglieva le doglianze del Gruppo Zanellato e, per ciò che qui interessa, precisava che le prove addotte da parte appellata consistevano in documenti relativi ad annunci Ebay o Amazon e a periodici di moda, che non provavano che il segno de quo fosse comunemente usato dai produttori e che quindi non dimostravano affatto che gli operatori economici utilizzavano il segno “postina” per indicare le borse in questione. Inoltre, con riferimento al dato temporale, la Corte rilevava “che il termine [“postina”, n.d.r.] era stato utilizzato da privati venditori, registrati su siti di commercio on line e da riviste di moda in epoca successiva alle registrazioni tutte del 2011 da parte di Zanellato”.
Veniva inoltre accolta la doglianza relativa alla violazione dell’art. 115 c.p.c. e del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., posto che le attività istruttorie per assurgere al rango di prova tipica e dunque legalmente ammissibile devono essere indicate in modo puntuale e devono comunque svolgersi nel contraddittorio tra le parti, non essendo quindi ammessa la scienza privata del Giudice.
Alla luce di tali considerazioni, quindi, la Corte riformava integralmente la decisione di I grado, dichiarava la distintività del marchio Postina® e accertava la contraffazione del marchio di Zanellato ad opera di The Bridge.
I passaggi della sentenza della Corte di Appello sopra richiamati offrono un interessante spunto per alcune brevi riflessioni sul tema delle indicazioni descrittive di cui all’art. 13 c.p.i. e sui principi del dispositivo ex art. 115 c.p.c. e del contraddittorio ex art. 101 c.p.c..
Relativamente al primo aspetto, l’art. 13 c.p.i. dispone che non possono essere registrati, perché descrittivi (e dunque se registrati sarebbero nulli), i segni che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio (art. 13.1 lett. A) ovvero quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono (art. 13.1 lett. B).
Tuttavia, affinché un segno registrato possa essere dichiarato nullo/descrittivo ex art. 13.1, lett. A-B, c.p.i. è necessario che la parte che invoca la norma de qua dimostri che tale segno fosse privo di carattere distintivo al momento del deposito della domanda di registrazione.
Inoltre, come precisato dalla Corte meneghina, in relazione all’uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio (art. 13.1 lett. A), oltre al tempo della prova è altresì fondamentale dimostrare un uso diffuso da parte dagli operatori del mercato di riferimento, non rilevando a riguardo usi di privati o di terzi che non siano operatori economici del settore.
Con riferimento al secondo tema, il disposto di cui all’art. 115 c.p.c. è espressione del noto principio dispositivo.
La norma prevede che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.
La regola generale è quella per cui entrano a far parte del processo – e possono quindi essere posti a fondamento della decisione – soltanto i documenti e le prove addotte dalle parti, non essendo sufficiente una mera allegazione non suffragata da valide prove né potendosi ricorrere a presunzioni, né tantomeno potendo il Giudice motivare la decisione sulla base della sua propria “scienza privata” o su documenti sui quali non vi sia stato contraddittorio (ex art. 101 c.p.c.).
Le eccezioni a tale principio generale sono costituite dai “casi previsti dalla legge” (interrogatorio non formale delle parti, ispezione di persone e di cose, richiesta di informazioni alla P.A., assunzione di nuovi testimoni etc.), dai fatti non contestati dalla parte e dalle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (c.d. “fatto notorio”).
Quest’ultima fattispecie, in particolare, per consolidata e pressoché unanime giurisprudenza, si riferisce esclusivamente ad eventi che, per via della loro indubbia ed oggettiva conoscibilità, rientrano nella conoscenza della collettività e che, pertanto, non hanno bisogno di essere dimostrati.
In nessun caso, tuttavia, tale deroga può essere intesa come ammissibilità di scienza personale del Giudice.
L’interpretazione sopra riportata è stata avallata anche dalla Corte di Appello di Milano nella sentenza in commento, in cui viene richiamata – a supporto – una recente decisione della Corte di Cassazione per cui “il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), ex art. 115, comma 2, c.p.c., deve essere riferito ad eventi di carattere generale ed obiettivo che, proprio perché tali (come, ad esempio, la svalutazione monetaria, oppure un evento bellico), non hanno bisogno di essere provati nella loro specificità; sicché, ai fini probatori previsti da detta norma, non è consentito generalizzare situazioni particolari e se, in taluni casi, la considerazione della notorietà può essere limitata ad una cerchia sociale o territoriale ristretta, quale un insieme di persone aventi tra loro una comunanza di interessi, così da far assurgere all’alveo del notorio anche nozioni sicuramente esorbitanti da quella cultura media che rappresenta il naturale parametro della nozione in oggetto, giammai tale comunità ristretta può essere individuata sulla base di un mero carattere territoriale” (v. Cass. civ. n. 5530/17).
In sintesi, la Sentenza in commento ribadisce, questa volta a favore del Gruppo Zanellato, i seguenti principi consolidati: (1) la descrittività di un segno ex art. 13.1 lett. A-B, diversamente dalla volgarizzazione, deve essere dimostrata con riferimento al periodo precedente al deposito della domanda di registrazione del segno; (2) la prova che una parola sia entrata nel linguaggio corrente o nell’uso comune degli operatori del commercio deve essere intesa in senso rigoroso; (3) il Giudice non può porre a fondamento della decisione la propria scienza privata ovvero documenti sui quali non vi sia stato contraddittorio.
Si aggiunge infine che la Sentenza consente un’ulteriore considerazione – implicita nella decisione ma non per questo meno importante – per cui non è possibile eccepire un uso descrittivo di segni distintivi (ossia segni che per loro natura non sono descrittivi), essendo evidente che la descrittività o meno di un segno è una circostanza obiettiva derivante dall’effettivo significato del segno o della parola, ed essendo irrilevante l’intenzione o l’opinione di colui che usa il segno (o la parola) di farlo in modo descrittivo.
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