“Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’…” (Lucio Dalla, 1979). Queste parole accompagnano, dalla mia infanzia, i miei pensieri e le mie emozioni in questo periodo dell’anno. Chissà perché ma questo periodo suscita, in molte persone, un caldo senso nostalgico del Tempo che è stato e, nonostante non ci sia più, risulta sempre presente. Il senso della nostra identità a volte sfuma proprio in questo genere di ricordi che il rituale delle “Feste” rianimano in Noi, così come quando un sistema informatico fa in backup di sé stesso secondo tempi e modi definiti dal programmatore. È come se fossimo “qui ed ora” ma anche “là e allora”, nel mentre desideriamo scorgere un “lì e ancora” che possa darci le certezze necessarie a confidare che tutto il Bene per noi e che ci Piace sempre sarà.
Il Tempo così passa e noi ci trasformiamo procedendo nella sua linea dimensionale. Detto così il Tempo si presenta a noi come cinico e baro. Ed allora, proprio per questo, facciamo Festa; festeggiamo cioè la nostra capacità, in quanto Figli della Natura e di questo pianeta, di scorgere nello scorrere del Tempo stesso dei momenti Eterni, degli Spazi di memoria capaci di connettere luoghi, persone, anime, desideri, emozioni…sempre le stesse, eppure infinitamente diverse, le cui maschere non coprono ma svelano chi siamo ed il nostro spirito umano.
Ecco perché sento di scrivere ora questo articolo ad un Amico non immaginario. Un Amico lettore capace di leggermi tra queste righe e di leggere se stesso nel chiaroscuro di queste parole. Ed allora facciamo Festa…ma come? Con cosa? C’è ancora motivo di fare festa? Natale, l’ultimo dell’anno, capodanno, l’epifania: tutte festività dei bambini e per i bambini…in questo tempo che verrà noi cosa abbiamo da festeggiare?
Troppo spesso, caro/i amico/i lettore/i, dimentichiamo che le nostre relazioni (anche quelle più pericolose) sono prima di tutto relazioni con noi stessi, alla ricerca del nostro vero sé sepolto sotto cumuli di maschere sociali. Allo stesso modo, in questo periodo dell’anno noi ritorniamo a relazionarci, attraverso figli, nipoti, cugini, etc., con il nostro bambino interiore, per riscoprire chi eravamo e chi possiamo ancora essere. Ad alcuni questo bambino interiore può fare addirittura terrore, lasciare indifferenti oppure confondere con quei perché ai quali gli “adulti” non hanno mai saputo rispondere. Come rispondiamo allora alle istanze di questo bambino/a? Beh, semplicemente riempendolo (riempendoci) di oggetti, di “cose”, che possano distrarci con una novità, oppure con una fuga dalla realtà o, addirittura, con un gesto capace solo di dire quale è l’opinione che abbiamo di noi stessi (il senso del “regalo riciclato” forse sta tutto lì).
Ripercorriamo così la secolare contrapposizione tra gli Edonisti Epicurei e quelli che potremmo definire gli Stoici pragmatici.
Edonismo (dal greco antico ἡδονή edoné, “piacere”) è, in senso generale, il termine con il quale si indica un pensiero che identifica il bene morale col piacere, riconoscendovi in questo il fine ultimo dell’essere umano. Un certo edonismo, in particolare riduce il bene al piacere che la persona può godere momento per momento (la gioia, l’allegria, etc.), poiché non vi è nessuna certezza che ne possa usufruire nel futuro a causa del destino che rende dubbia ogni speranza di vita felice. La ricerca di un bene futuro si accompagna dunque sempre a un senso di incertezza e inquietudine che alla fine rende affannosa la vita di un individuo che cerca di impossessarsi di un piacere in movimento (“cinetico”). Il conseguimento del piacere caratterizza sì il fulcro dell’etica edonistica ma non in particolare quella epicurea che, invece, tende decisamente a conseguire il piacere stabile, duraturo, inteso però come cessazione degli stati dolorosi. Un piacere raggiungibile solo attraverso quei beni “non di consumo” ma che si mantengono inalterati nel tempo e che quindi assicurino serenità e tranquillità d’animo. In questa prospettiva, quindi, il saggio è colui che coltiva l’amicizia e l’atarassia (ovvero “assenza d’agitazione”, quella che oggi definiremmo con il termine “assenza di attacchi di panico”) vale a dire il distacco dalle passioni fini a se stesse e non da quelle che danno senso fattuale al proprio esistere come esseri umani.
Lo stoicismo è una corrente filosofica fondata intorno al 300 a.C. ad Atene, da Zenone di Cizio. Tale filosofia prende cioè il nome dalla Stoà Pecìle di Atene o «portico dipinto» dove proprio Zenone impartiva le sue lezioni. Gli stoici sostenevano l’autocontrollo e il distacco dalle cose terrene onde raggiungere l’integrità morale e intellettuale, ovvero l’apatìa che permette allo spirito il raggiungimento della saggezza. Riuscire in ciò è un compito prettamente individuale, attuabile unicamente attraverso la coscienza interiore di sé stessi o autocoscienza e scaturente dalla capacità del saggio di abbandonare i condizionamenti imposti dalla società. Tutto questo, comunque, può essere raggiunto solo attraverso la realizzazione di un piano universale razionale, insito nell’ordine della natura, ed a cui nessuno può sottrarsi. Essere virtuosi allora significa vivere in modo conforme alla natura del mondo. Difatti, mentre gli animali tendono a preservare se stessi obbedendo agli impulsi, gli uomini devono scegliere sempre quel che conviene alla nostra natura di esseri razionali. La condotta umana quindi non può essere la ricerca del piacere ma il riconoscimento del Logos, della ragione intellettuale in tutto ciò che si fa, in contrapposizione al principio passivizzante dell’anima individuato nelle passioni. Sono le passioni infatti che impediscono l’adeguamento della condotta umana alla razionalità. È nella saggezza pratica (phronesis), a differenza di quella teoretica (sophia), che gli stoici individuano infine la capacità umana di raggiungere la felicità.
È in tal senso che collego lo stoicismo al pragmatismo moderno, inteso come filosofia che sostiene l’attività pratica, intesa nel senso di un comportamento diretto alla realizzazione di un fine concreto. Per il pragmatista, infatti, ciò che è buono e vero può essere identificato nell’insieme delle conseguenze pratiche utili all’individuo e tali che sia possibile una conoscenza obiettiva della realtà. Un pragmatista, in altre parole, ha un atteggiamento mentale e di comportamento tale da privilegiare la pratica e la concretezza rispetto a schemi astratti o principi ideali.
Come essere umano che oscilla tra il caldo abbraccio delle passioni amicali ed il controllo razionale dei comportamenti pratici dei “regali utili”, sento dentro di me riecheggiare il suono di un’altra canzone della mia infanzia: “…Buon Natale, Buon Natale , qui va tutto benone, specialmente se scrivi due righe per me, e se torni c’è ancora un regalo per te, e chissà se ritorni, se resti, se vai, è Natale se tu tornerai…” (Paolo Barabani, 1981).
Pertanto, Buone Feste e Buon Ritorno…ci leggeremo, lo spero, anche ad Anno Nuovo!
a cura di Salvatore Rotondi