Se un film è adatto o meno ai minori di 18 anni lo decide il Giudice amministrativo (TAR Lazio, sez. II-quater, sentenza n. 11007/2018, depositata il 14.11.2018). E così, se un film si propone di esaltare la liberazione da qualsiasi morale a partire da quella sessuale, dove le donne sono presentate solo come strumento di piacere anziché come persone, non può che essere giudicata inadatta la visione da parte di un pubblico “impressionabile” e non in grado di apprezzare criticamente le situazioni in esso rappresentate che tentano di “legittimare” (nel senso di proporlo come accettabile o addirittura come modello), la mercificazione della persona ridotta a mero corpo-strumento dello scambio di piacere-potere.
In sostanza, non è sufficiente presentare un film come documentario e dichiararsi disponibile ad eliminare alcune scene, se il film stesso, complessivamente, è del tutto privo di dialoghi o di una storia. Perché i contenuti dell’opera sono espressi dai monologhi del protagonista, tutti concentrati sulla tematica della liberazione da qualsiasi morale, rievocando “il periodo felice dalla pillola all’aids” (in tal modo svilendo un tema degli anni 70 che aveva anche e soprattutto un valore “politico-sociale”, indirizzando i giovani verso una lettura storica non corretta di un periodo storico).
La sentenza, nel richiamare il quadro di riferimento normativo, ha ricordato anche che la dottrina ha analizzato il ruolo del Giudice amministrativo in questa materia, concentrando l’attenzione, in particolare, sul riferimento al concetto di “buon costume” – che consente non solo di limitare la visione a determinate fasce di età di utenti, ma addirittura di vietare la proiezione in pubblico delle opere ritenute ad esso contraria – precisando, anche in tempi recenti, che tale concetto «si fonda essenzialmente sul sentimento morale (che si ritiene che sia) diffuso nella popolazione e sulla capacità (anche questa, ovviamente, come giudicata dall’autorità pubblica competente) di un ipotetico uomo medio di accettare con relativa tranquillità l’impatto di determinate rappresentazioni: è quindi, per definizione, un parametro valutativo dotato della massima flessibilità, capace di evolversi (quasi per accumulazione) nel tempo, ma la cui applicazione non richiede conoscenze tecnico-specialistiche».
Si tratta pertanto di un’operazione interpretativa, non creativa, con cui il Giudice è chiamato a rinvenire il canone di giudizio dal comune sentimento sociale del suo tempo secondo il criterio del buon pater familias, facendosi interprete dei valori espressi dal corpo sociale. In particolare è stato chiarito il proprium della giurisdizione di merito nel settore in esame, che si caratterizza proprio perché l’oggetto ed il criterio di valutazione sono profondamente diversi da quelli tipici del giudizio di legittimità sull’atto amministrativo evidenziando che nel giudizio sul nulla osta alla proiezione dei film le valutazioni delle Commissioni sono analoghe a quelle dei giudici: «quel che cambia è solo la composizione materiale dei collegi giudicanti, non il metro del giudizio».
Ovviamente, precisa la sentenza, il criterio “morale” su cui si basa l’art. 9 d.P.R n. 2029/1963 (il quale individua i presupposti per il divieto della visione ai minori) non può essere “declassato” a quello meramente “statistico” dei costumi più diffusi in determinati momenti storici, ma va individuato sulla base della “accettabilità” secondo «il criterio normale dell’uomo di media cultura e di sani principi» – alla stregua dei valori espressi dal corpo sociale – dei comportamenti rappresentati come “modello” nel film esaminato.
Tali considerazioni sul delicato compito del giudice amministrativo, formulati – già dai primi commentatori, e recepiti da risalente e consolidata giurisprudenza – all’inizio degli anni ’60 valgono a maggior ragione nell’attuale momento storico, in cui l’evoluzione della società, pluralistica e multietnica, è caratterizzata dal confronto tra due diversi modelli – altrettanto estremizzati – di morale (iconoclasticamente rappresentati dal chador da una parte e dall’esibizione della nudità in funzione provocatoria e dalla mitizzazione della disinibizione e della trasgressione nei comportamenti pubblici e privati dall’altra) che ingenerano conflitti tra i gruppi sociali ed intergenerazionali e che spingono per una ricerca di un punto minimo di equilibrio, che sia accettabile da entrambe le parti, anche in funzione di garanzia della necessaria coesione del corpo sociale.
Ciò implica, da un lato, l’esigenza di non negare (né negativizzare) la componente sessuale della personalità degli individui, riconosciuto come diritto fondamentale della persona umana (tanto che il danno alla vita sessuale è risarcibile come danno esistenziale in sede civile, e la lesione è stata di recente riconosciuta anche nell’ambito matrimoniale nel diritto canonico), dall’altra parte, l’esigenza di protezione giuridica della libertà e della dignità della persona umana, come consacrata dalla nostra Carta Costituzionale, impediscono che questa possa essere ridotta alla sola dimensione sessuale, declassando la persona in mero corpo fisico e trasformando quest’ultimo in mero strumento di piacere altrui, come oggetto da mercanteggiare in cambio di denaro o di favori.
Il Tar Lazio ha respinto quindi il ricorso della produzione avverso il «nulla osta di proiezione in pubblico» nella parte in cui il M.B.A.C.T. ha posto il «divieto di visione ai minori degli anni 18».
a cura di Alessandro Gargiulo