I fenomeni di corruzione sistematica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come «messa a libro paga del pubblico funzionario» o «asservimento della funzione pubblica agli interessi privati» o «messa a disposizione del proprio ufficio», tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata – sussunti prima della riforma del 2012 nella fattispecie della corruzione propria, per atti contrari al proprio ufficio, prevista dall’art. 319 c.p. – devono essere ricondotti alla previsione di corruzione impropria ex art. 318 c.p., sempre che l’accordo o i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 4486/2019, depositata il 29.1.2019).
Questo il principio di diritto affermato dalla Sesta Sezione della Corte Suprema nella nota vicenda avente ad oggetto, nella prospettiva accusatoria, il c.d. metodo Parnasi, ossia del programma illecito di continuare ad elargire somme di denaro ai politici fino a quando i vari progetti in corso, tra i quali quelli del “Nuovo stadio della Roma” non avesse ottenuto tutte le autorizzazioni.
In particolare all’imputato, Consigliere della Regione Lazio, erano stati applicati gli arresti domiciliari in quanto ritenuta sussistente, sia dal GIP che dal Tribunale del riesame di Roma nel provvedimento ricorso in Cassazione, l’ipotesi corruttiva più grave descritta dall’art. 319 c.p., legata all’atto contrario ai doveri del suo ufficio pubblico, per aver ricevuto dal Parnasi il contributo di 25.000 euro, attraverso il versamento di tale somma ad una società a lui direttamente riconducibile, per il compimento di atti riconducibili al suo ufficio di Consigliere regionale; ed in generale all’asservimento delle sue funzioni agli interessi del Parnasi e del suo gruppo imprenditoriale.
Nel corso del giudizio di legittimità la misura cautelare era stata sostituita con quella dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e con quella interdittiva della sospensione dall’esercizio dell’ufficio pubblico ricoperto. Tuttavia, l’interesse dell’indagato all’impugnazione sussiste anche se nelle more del procedimento incidentale de libertate, la misura custodiale sia stata sostituita con altra meno afflittiva, se i motivi del gravame hanno ad oggetto l’esistenza dei presupposti dell’applicazione della misura cautelare. In tale prospettiva, la tesi difensiva del ricorrente mirava proprio a sostenere l’impossibilità di fornire al Parnasi in certi settori alcuna utilità. E con riguardo al nuovo stadio della Roma nessun patto corruttivo poteva ritenersi sussistente in quanto nell’unico incontro di cui dà conto il Tribunale del riesame il progetto dell’impianto era già stato approvato.
Una volta superato dagli Ermellini il motivo sul difetto di autonoma valutazione delle esigenze cautelari, previsto dall’art. 292, lett. c, c.p.p., da parte del giudicante rispetto a quella contenuta nella richiesta applicativa – che non va confusa con la tenuta logica della motivazione che può ben essere, come avvenuto nella specie, dal Tribunale del riesame – viene ritenuto fondato sulla corretta qualificazione giuridica della condotta corruttiva, provvisoriamente addebitata al ricorrente.
In verità, si registra un contrasto in seno alla Sesta Sezione della Corte Suprema sull’esatto inquadramento dei fenomeni di corruzione sistematica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” o messa a disposizione del proprio ufficio”. Il comune denominatore di questi casi è l’accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata.
Un orientamento continua a ritenere che, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 190/2012 (prima dell’intervento normativo la distinzione tra corruzione propria e impropria poggiava e aveva come baricentro l’atto, contrario o non, ai doveri d’ufficio), configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 c.p. (adesso incentrato non sull’atto ma l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri) – lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell’an, nel quando o nel quomodo, si conformino all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (sentenza Bonanno n. 3606/2016, ripresa da 7903/2018).
Più corretta e aderente all’intenzione del legislatore sembra la sussunzione dei patti corruttivi operata dalla sentenza in commento nella ipotesi meno grave di “corruzione per esercizio della funzione”. La novella del 2012 ha mutato la natura e la struttura della corruzione impropria (prima legata all’atto non contrario all’ufficio), ricomprendendo tutte le ipotesi di compravendita della figura pubblica, non connesse causalmente al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.
Mentre prima della riforma, si era data una lettura estensiva (o forse analogica in malam partem) della corruzione contraria all’atto di ufficio – ritenendo sufficiente individuare il “genus” di atti da compiere (suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati) la nuova fattispecie ha inteso superare i limiti applicativi della previgente normativa codicistica, così da colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi in ordine al concetto di atto d’ufficio, punendo tutte le ipotesi di mercimonio connesse all’esercizio della funzione costituenti forma di generica messa a disposizione del pubblico funzionario.
La nuova formulazione dell’art. 318 c.p. non ha eleminato delle condotte prima sanzionate (sotto l’ombrello della più grave corruzione di atto contrario ai doveri d’ufficio) ma, al contrario, tracciando e marcando in maniera chiara i confini tra i vari accordi corruttivi, in adesione della richiesta determinatezza della legge penale, ha esteso l’area della punibilità in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto d’ufficio, il più generico collegamento, della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all’esercizio delle funzioni o poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In tal modo, si sono configurati i fenomeni corruttivi, prima non riconducibili nell’area dell’art. 319 c.p., in una fattispecie di onnicomprensiva “monetizzazione” del munus pubblico, sganciata da una logica di sinallagma, così superando i limiti applicativi in quelle ipotesi dove sembrava più sfumato il comportamento pubblico oggetto del mercimonio. In definitiva, si sposta l’attenzione dall’atto e dal pactum sceleris all’esercizio contra legem della funzione.
Non avendo fatto corretta applicazione dei suindicati principi, la gravata ordinanza viene annullata con rinvio per un nuovo esame al Tribunale del riesame di Roma.
a cura di Alessandro Gargiulo