Se il principio di trasparenza può giustificare, per tutti i dirigenti pubblici, la pubblicazione dei compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica nonché delle spese relative ai viaggi di servizio e alle missioni pagate con fondi pubblici, così non è per gli altri dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, non trattandosi di dati collegati all’espletamento dell’incarico.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la Sentenza n. 20, depositata il 21 febbraio 2019.
La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, d.lgs. n. 33/2013 (c.d. decreto trasparenza), inserito dall’art. 14, d.lgs. n. 97/2016. Tale disciplina ha esteso a tutti i titolari di incarichi dirigenziali nella P.A., a qualsiasi titolo conferiti, gli obblighi di pubblicazione di una serie di dati già previsti a carico dei titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di livello statale, regionale e locale.
In particolare, il rimettente censura la normativa in questione nella parte in cui stabilisce che le pubbliche amministrazioni pubblichino, per i dirigenti, i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici, la dichiarazione dei redditi e quella concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società, anche in relazione al coniuge non separato ed ai parenti entro il secondo grado.
La questione sollevata davanti alla Consulta concerne il bilanciamento tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
In valutazioni di tale natura, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto test di proporzionalità, che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi (cfr. Corte Cost., n. 137/2018, n. 10/2016 e n. 272/2015).
Analoghe valutazioni sono state espresse dalla giurisprudenza europea (cfr., ad es., C.G.U.E., sentenze 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk ). La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea ha influenzato lo stesso legislatore europeo, che ha avviato un ampio processo di revisione del quadro di regole in materia di protezione dei dati personali, concluso con l’emanazione di un unico corpus normativo di carattere generale, costituito dal regolamento n. 2016/679/UE (GDPR), incentrato sul principio di proporzionalità del trattamento.
In nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche ed in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.
Tuttavia, il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche. Ciò, pertanto, porta ad escludere l’ammissibilità di un obbligo generalizzato di pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali.
Secondo i giudici costituzionali, il legislatore, nell’estendere tutti gli obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici alla totalità dei circa 140.000 dirigenti pubblici (e, se consenzienti, ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado), ha violato il principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali e presidiato dall’art. 3 Cost.. Ed infatti, benché tali obblighi siano funzionali all’obiettivo della trasparenza ed, in particolare, alla lotta alla corruzione nella P.A., tra le diverse misure appropriate non è stata prescelta, come richiesto dal principio di proporzionalità, quella che meno sacrifica i diritti a confronto.
Se il principio di trasparenza e l’esigenza di un controllo sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali possono giustificare, per tutti i dirigenti pubblici, la pubblicazione dei compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica nonché delle spese relative ai viaggi di servizio e alle missioni pagate con fondi pubblici, così non è per gli altri dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, non trattandosi di dati necessariamente e direttamente collegati all’espletamento dell’incarico affidato. Inoltre, la loro pubblicazione non può essere sempre giustificata – come avviene invece per i titolari di incarichi politici – dalla necessità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale allo scopo di mantenere saldo, durante il mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
A ciò si aggiunga che la pubblicazione di quantità così massicce di dati – senza alcuna distinzione tra i dirigenti, in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta – per la Consulta, non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi, anche a fini anticorruttivi e rischia, anzi, di generare “opacità per confusione”, oltre che di stimolare forme di ricerca tendenti unicamente a soddisfare mere curiosità.
A fronte dei rilievi sopra evidenziati, il giudice delle leggi ritiene di non poter ridisegnare, tramite una pronuncia manipolativa, il complessivo panorama, necessariamente diversificato, dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con le quali tali obblighi debbano essere attuati, rientrando nelle prerogative del legislatore. Nondimeno, la Corte ritiene necessario assicurare un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disciplina censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore.
Pertanto, la declaratoria di incostituzionalità viene circoscritta alla disposizione che impone la pubblicazione generalizzata a tutti i dirigenti pubblici dei dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, non ricollegabili all’espletamento dell’incarico affidato. Di contro, viene ritenuto non irragionevole mantenere gli obblighi di trasparenza di cui si discute nei riguardi dei dirigenti apicali, ai quali sono attribuiti compiti – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa – di elevatissimo rilievo. Spetterà al legislatore ridisegnare la materia – con le necessarie diversificazioni e per tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali – nel rispetto del principio di proporzionalità posto a presidio della privacy degli interessati.
a cura di Alessandro Gargiulo