Fu vera assenza quella dell’imputato la cui elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio è avvenuta contestualmente alla nomina dello stesso da parte della polizia giudiziaria? Alle Sezioni Unite l’ardua sentenza (Corte di Cassazione, sez. I Penale, ordinanza n. 9114/2019, depositata il 1° marzo 2019).
Questo il quesito sottoposto alle SS.UU. da parte della Prima Sezione Penale della Corte: «se per la valida pronuncia della dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis c.p.p., integri presupposto sufficiente – particolarmente nell’ipotesi di sua identificazione da parte della polizia giudiziaria, con nomina di difensore d’ufficio – il fatto che l’indagato elegga contestualmente il domicilio presso il suddetto difensore di ufficio, oppure tale elezione non sia di per sé sufficiente e se, in questo caso, possa tuttavia diventarlo sulla base di altri elementi che convergano nel far risultare con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento stesso o di atti del medesimo».
È evidente come il quesito sottoposto alle Sezioni Unite abbia duplice natura o, per meglio dire, sia composto in realtà da un duplice quesito.
La prima questione viene individuata dalla sezione remittente nella possibilità di ritenere efficace l’elezione del domicilio da parte dell’indagato presso il difensore di ufficio nell’ambito di una nomina effettuata dalla polizia giudiziaria anteriormente alla esistenza, formale, di un procedimento penale.
Il secondo quesito rileva invece in relazione alla possibilità che l’elezione di domicilio effettuata con le modalità sopra descritte possa ritenersi comunque efficace laddove esistano elementi (di fatto) tali dal far risultare con certezza che l’indagato sia stato a conoscenza del procedimento e si sia volontariamente sottratto al medesimo od a suoi atti.
Il ragionamento della prima Sezione della Suprema Corte è molto interessante e perfettamente sviluppato.
Esso trae le mosse dal contrasto giurisprudenziale insorto circa la validità dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio effettuata in sede di identificazione dell’indagato svolta da parte della polizia giudiziaria, riconosciuta non sufficiente presupposto per procedersi a dichiarazione di assenza da parte di una parte della giurisprudenza, mentre ritenuta assolutamente valida da altra parte della stessa.
Il primo filone giurisprudenziale tra le mosse dalla interpretazione giurisprudenziale formatasi in riferimento al vecchio istituto della contumacia e pare radicarsi nel solco della giurisprudenza sovra nazionale.
Il secondo invece pone al centro del proprio ragionamento proprio l’intervenuta abolizione dell’istituto della contumacia attraverso l’introduzione nella normativa sull’assenza e sul tenore dell’art. 420-ter c.p.p. che, a detta di detto filone giurisprudenziale, indica ipotesi tassative riferibili alla impossibile conoscenza del processo da parte dell’indagato-imputato.
Posta l’impossibilità di conoscere l’esito che avrà la vicenda mi pare interessante svolgere alcune considerazioni che, seppur banali, mi paiono utili in qualche modo a definire le caratteristiche di un istituto certamente nuovo per il legislatore e l’interprete italiano.
Mi pare di poter affermare che il processo in assenza abbia legittimità, nazionale e sovranazionale, esclusivamente nel caso in cui sia certa la intervenuta conoscenza della sua esistenza da parte dell’imputato.
Ora, la conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale da parte del soggetto che vi si ritrova sottoposto, interviene, a mio parere, con la consegna del primo atto riferibile al medesimo al soggetto stesso.
Dunque, nel caso che ci occupa, a mio modestissimo parere, il soggetto interessato al procedimento penale, viene a conoscenza dell’esistenza dello stesso nel momento in cui egli viene identificato e posto a conoscenza che a seguito di tale atto egli sarà potrà essere assistito da un soggetto dotato delle competenze tecniche atte ad esplicitare al meglio le attività defensionali in suo favore.
Ovvero, identificato e notiziato dell’esistenza di un soggetto chiamato (ricordiamo l’etimo latino di avvocato) a difenderlo, l’indagato deve ritenersi a conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale a proprio carico.
L’obiezione, fondata sotto un profilo strettamente formale, è che nel momento in cui l’identificazione da parte della p.g. interviene, il procedimento penale, formalmente, non è ancora aperto posto che esso può definirsi come tale solo dopo l’iscrizione dell’indagato nel registro ex art. 335 c.p.p..
Ora, mi pare che sotto questo profilo occorra considerare che:
il procedimento penale pur se non ancora formalmente aperto è in essere tanto dal necessitare che all’identificato (indagato) venga nominato difensore;
l’identificato indagato ha ricevuto notizia del possibile (probabile) procedimento penale esistente nei propri confronti e dunque altro non dovrà fare se non attivarsi, secondo normali ed ordinari criteri di diligenza presso il difensore nominato al fine di conoscere lo stato del procedimento o di assumere le informazioni necessarie ad assicurare in altro e differente modo la propria difesa;
nessun pregiudizio concreto e reale all’attività difensiva e quindi al diritto di difesa all’identificato -indagato viene apportato dalla attività di p.g.;
non esistono disposizioni di carattere positivo, ne nazionali ne sovranazionali (CEDU) che identificano la necessità di conoscere l’esistenza di un procedimento a proprio carico in un termine prestabilito e posticipato rispetto ad un qualsiasi atto, provenga esso dalla p.g. o dall’autorità giudiziaria, purché vi sia una concreta ed effettiva conoscenza dell’esistenza dello stesso da parte di chi ne è sottoposto.
Ne risulta, che il concetto di conoscenza, o se si vuole il requisito della conoscenza, riveste carattere senso sostanziale e non collegato a declinazioni di carattere giuridico o formale. Conosco ciò di cui sono stato portato a conoscenza e, conseguentemente, da detta conoscenza nascono doveri che importano obblighi di adempimento. Pena la rinuncia, consapevole, al diritto di difendersi “provando”.
Un codice, il codice dei galantuomini, funziona solo se al dovere dello stato di informare e di garantire la difesa corrisponde l’obbligo di chi è attinto da procedimento di attivarsi senza indugi o fraintendimenti.
La seconda parte del quesito devoluto alle SS.UU. pare porsi in linea con l’interpretazione proposta, posto che indica la possibilità di ritenere comunque valida la conoscenza del procedimento anche laddove essa possa essere tratta «da altri elementi che convergano nel far risultare con certezza che lo stesso (identificato/indagato) è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento stesso».
Resta un dubbio che par corretto esplicitare.
Non sono d’accordo con la seconda parte del quesito che mi pare lasci troppa discrezionalità all’interprete che dovrebbe pronunciarsi sulla capacità di altri elementi convergenti atti a far ritenere con certezza che il soggetto sottoposto a procedimento ne fosse a conoscenza.
Si tratta di attribuire un potere discrezionale altissimo su di una questione delicata che attiene alla stessa fondamentale fase dell’instaurazione del contraddittorio.
Credo che in punto sia più opportuno avere una certezza, magari non completamente appagante delle differenti sensibilità od interpretazioni giuridiche ma inoppugnabile, piuttosto che affidarsi, in questione di carattere procedurale fondamentale, alle vicenda del singolo caso concreto che rischiano di divenire le vicenda del singolo giudice concreto o della singola sezione della Corte concreta o, addirittura della singolo collegio della singola sezione che in concreto si pronuncia sul caso.
a cura di Alessandro Gargiulo