Aggravante del motivo futile e reati culturalmente orientati nella giurisprudenza


00000000000000000000Il fenomeno delle migrazioni di massa ha da sempre posto problemi alla criminologia e alle scienze penali in genere, già Sellin nel 1938 elaborava la teoria dei conflitti culturali osservando l’enorme flusso migratorio verso gli Stati Uniti. La dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno elaborato la nozione di “reati culturalmente orientati o motivati” per indicare quei reati che maturano in particolari contesti culturali, etnici o religiosi.

Sono stati definiti reati culturalmente orientati quei fatti che, pur essendo rilevanti in un ordinamento, non lo sono all’interno del contesto socio-culturale e giuridico di appartenenza del reo.

Nell’ambito dei reati sopra definiti maggiormente problematica appare la configurabilità dell’aggravante del motivo futile di cui all’art. 61 n. 1 del Codice Penale. L’aggravante in questione sussiste ogni qualvolta la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve e sproporzionato rispetto alla gravità del reato da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa (così Cass. Pen. 21.09.2007 Z.H.H.).

Il richiamo al “comune modo di sentire”, così come il richiamo alla “coscienza collettiva”, alla “persona di media moralità” o al “sentire della comunità sociale”, più volte operato dalla giurisprudenza, appare poco adatto se riferito a una determinazione a delinquere che trae la sua origine da una particolare cultura o religione che fuoriesce dalla coscienza collettiva, così come comunemente intesa.

Da tempo ormai la giurisprudenza ha avvertito la necessità di sostituire questi parametri di riferimento, astratti e di problematica verificabilità, con altri più concreti, quali le modalità del fatto e il contesto culturale, ambientale, religioso ed etnico del reo[1].

Fatta questa breve premessa non resta che chiederci a quali parametri il giudice deve ancorare la sua valutazione circa la sussistenza dell’aggravante del motivo futile, quando si trovi a giudicare di un reato culturalmente orientato.

La risposta non può che passare per una disamina empirica delle decisioni adottate dalla Suprema Corte. Recentemente la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi sul punto in due diverse occasioni.

In un caso di tentato omicidio posto in essere da un padre di religione islamica nei confronti della figlia, minorenne tra l’altro, accusata di aver avuto rapporti intimi con il suo fidanzato di fede religiosa diversa, violando, ad avviso del reo, la morale familiare e i precetti della religione islamica, la Corte concludeva per l’insussistenza dell’aggravante del motivo futile ritenendo che: << per quanto i motivi che hanno mosso l’imputato non siano assolutamente condivisibili nella moderna società occidentale, gli stessi non possono essere definiti futili, non potendosi definire né lieve né banale la spinta che ha mosso l’imputato ad agire>> (Cass. Pen., sez. I, 04.12.2013 n. 51059).

In altro e più recente caso di tentato omicidio, posto in essere da appartenenti a bande giovanili sudamericane nei confronti di soggetto appartenente ad altra banda, il Supremo Collegio ha affermato che: <<la futilità del motivo non è esclusa dall’appartenenza o dalla vicinanza dell’autore del reato a gruppi o comunità, quali le bande giovanili sudamericane, che riconoscono come valori positivi la violenza e l’uso della forza quale forma di affermazione della personalità individuale e di manifestazione di appartenenza al gruppo>> (Cass. Pen., sez. I, 10.04.2018, n. 25535).

Stante la diversità delle conclusioni cui è pervenuta la Corte, non resta che chiedersi se esistano e quali siano i criteri ermeneutici ai quali il giudice deve far riferimento nel valutare la sussistenza dell’aggravante in questione.

Nell’ultima decisione sopra citata la Suprema Corte ha offerto un criterio interpretativo che dovrebbe orientare il giudice nella sua valutazione: prima occorrerebbe identificare in concreto <<la natura e la valenza della ragione giustificatrice dell’azione delittuosa>>, e, successivamente, bisognerebbe procedere a un bilanciamento tra le esigenze religiose o culturali dell’agente e i principi fondamentali del sistema giuridico.

In sintesi, non dovrebbero essere riconosciute siffatte esigenze nel caso in cui <<si pongano in palese contrasto con i principi fondamentali del sistema giuridico>>.

A nostro avviso il ragionamento seguito dalla Corte rischia di essere di difficile applicazione, richiedendo al giudice una complessa e non controllabile operazione di identificazione della valenza e della natura di motivi culturali, etnici, religiosi che sottendono al reato commesso.

Altrettanto complesso ci sembra questo giudizio di bilanciamento tra esigenze culturali e religiose e principi fondamentali del sistema giuridico.

Da una lettura comparativa delle sentenze sopra riportate ci sembra di poter affermare che l’aggravante del motivo futile non dovrebbe sussistere quando la spinta a delinquere sia motivata da istanze culturali o religiose, cioè quando la determinazione delittuosa si radichi in contesti culturali, etnici o religiosi; tali non si possono ritenere, ad esempio, le bande criminali di diversa etnia.

Una cosa infatti è la cultura che forma e condiziona l’individuo, altra cosa è la sottocultura criminale che non può rilevare giuridicamente.

Inoltre l’aggravante in parola dovrebbe ritenersi sussistente ogni qualvolta l’appartenenza a contesti culturali diversi sia soltanto il pretesto o l’occasione per dare libero sfogo a impulsi delittuosi brutali e violenti che non trovano giustificazione in nessuna etnia, credo religioso o cultura che voglia veramente convivere con le altre in un ordinamento democratico.

a cura di Gaetano Esposito

Bibliografia:

  1. Basile: Immigrazione e reati culturalmente motivati, 2010
  2. De Maglie: I reati culturalmente motivati, Pisa,2010
  3. Bernardi: Il “fattore culturale” nel sistema penale, Torino, 2010

Note:

[1] Cfr. ex multis: Cass. Pen., sez. VI, sent. 28111/2012; Cass. Pen., sez. IV,42486/2011;  Cass. Pen., sez. I, sent. 6796/2011.

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