Droghe e anomalia sanzionatoria


pills-3673645_960_720In materia di stupefacenti, la divaricazione di ben quattro anni tra il minimo edittale di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni di reclusione) ed il massimo edittale della pena comminata per quella di lieve entità (quattro anni di reclusione) costituisce un’anomalia sanzionatoria, in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza, oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (Corte Costituzionale, sentenza n. 40/2019, depositata l’8 marzo 2019). 

La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990 (Testo Unico sugli stupefacenti), nella parte in cui, per effetto della sentenza costituzionale n. 32/2014, prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis, decreto-legge n. 272/2005 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 49/2006).
La disposizione censurata punisce con la pena edittale minima di otto anni di reclusione i casi “non lievi” di coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procacciamento ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna per qualunque scopo o, comunque, di illecita detenzione, senza la prescritta autorizzazione e fuori dalle ipotesi di destinazione all’uso personale, di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’art. 14 del Testo unico sugli stupefacenti (cc.dd. droghe “pesanti”).

Il rimettente ritiene che la previsione della pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni in luogo di quella di sei anni violi, innanzitutto, l’art. 25 Cost., dal momento che il trattamento sanzionatorio vigente sarebbe stato introdotto nell’ordinamento come conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014, in violazione del principio della riserva di legge in materia penale, in base al quale gli interventi volti a inasprire le sanzioni rientrano nel monopolio esclusivo del legislatore, senza che in tale ambito vi sia margine di azione per le sentenze manipolative della Consulta.
In secondo luogo, il giudice a quo denuncia una violazione dell’art. 3 Cost. in quanto la disposizione censurata delineerebbe un trattamento sanzionatorio irragionevole, tenuto conto che, nonostante la linea di demarcazione fra la fattispecie “ordinaria” (di cui alla disposizione denunciata) e quella di “lieve entità” (di cui all’art. 73, comma 5) non sia sempre netta, il “confine sanzionatorio” è, invece, eccessivamente e, quindi, irragionevolmente, distante, intercorrendo ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo dell’una e il massimo dell’altra. Infine, il rimettente sostiene che la disciplina impugnata contrasterebbe anche con gli artt. 3 e 27 Cost., poiché la previsione di una pena ingiustificatamente aspra e sproporzionata rispetto alla gravità del fatto ne pregiudicherebbe la funzione rieducativa
.
La pronuncia in commento smentisce l’assunto da cui muove il giudice rimettente secondo cui la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. precluderebbe al giudice delle leggi di intervenire in materia penale con effetti meno favorevoli per il reo. Invero, la giurisprudenza costituzionale ammette, in particolari situazioni, interventi in materia penale con possibili effetti in malam partem (cfr., Corte Cost., n. 394/2006 e, recentemente, n. 236/2018 e n. 143/2018), restando semmai da verificare l’ampiezza e i limiti dell’ammissibilità di tali interventi nei singoli casi.
Certamente il principio della riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. rimette al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare (così Corte Cost., n. 5/2014), ma non esclude che la Consulta possa assumere decisioni il cui effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ma dalla semplice rimozione di disposizioni costituzionalmente illegittime (cfr. Corte Cost., n. 236/2018).

La Consulta, dopo aver ribadito che le valutazioni discrezionali relative alla determinazione della pena spettano anzitutto al legislatore, ha confermato che non sussistono ostacoli al suo intervento quando le scelte sanzionatorie adottate dal legislatore si siano rivelate manifestamente arbitrarie o irragionevoli e il sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, che siano tali da ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze (cfr. Corte Cost., n. 233/2018 e n. 236/2016).
Ed infatti, nel rispetto delle scelte di politica sanzionatoria delineate dal legislatore e ad esso riservate, occorre evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore.

L’originario art. 73 del Testo unico sugli stupefacenti differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe “pesanti” rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe “leggere”. L’art. 4-bis, d.l. n. 272/2005 (poi dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 32/2014) aveva soppresso la distinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente, comminando la pena della reclusione da sei a venti anni per i fatti non lievi, nonché la pena della reclusione da uno a sei anni per i casi in cui fosse applicabile l’attenuante del fatto di lieve entità.
Con l’art. 2, comma 1, lett. a), d.l. n. 146/2013 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 10/2014), la circostanza attenuante del fatto di lieve entità è stata trasformata in fattispecie autonoma di reato ed è stato ridotto il limite edittale massimo della pena detentiva da sei a cinque anni di reclusione. Infine, il legislatore è tornato nuovamente sulla materia, con il d.l. n. 36/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 79/2014), che tra l’altro, ha ulteriormente diminuito il massimo edittale della pena prevista per il fatto di lieve entità, fissandolo nella misura di anni quattro di reclusione.
È a seguito di questa stratificazione di interventi legislativi che si è progressivamente scavata la lamentata profonda frattura che separa il trattamento sanzionatorio del fatto di non lieve entità da quello del fatto lieve, senza che il legislatore abbia provveduto a colmarla nonostante i gravi inconvenienti applicativi che essa può determinare.

Nel merito, le censure del giudice a quo sono fondate, dal momento che la divaricazione di ben quattro anni venutasi a creare tra il minimo edittale di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) ed il massimo edittale della pena comminata per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce un’anomalia sanzionatoria (cfr. Corte Cost., n. 179/2017), in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza (art. 3 Cost.), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.).
L’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto, con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte. Ne discende, quindi, l’incostituzionalità della disposizione censurata.
La Consulta chiarisce, comunque, che la soluzione sanzionatoria adottata non costituisce un’opzione costituzionalmente obbligata e, quindi, rimane possibile un diverso apprezzamento da parte del legislatore, nel rispetto del principio di proporzionalità.

a cura di Alessandro Gargiulo

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