Nessuna lettura alternativa per il gesto compiuto da una donna ai danni di un’altra donna. Evidente, per i Giudici, la natura sessuale dell’azione. A sostegno di questa tesi anche la morbosità manifestata dalla persona sotto processo nei confronti della sua vittima (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 12250/2019, depositata il 20.3.2019).
L’episodio incriminato risale all’estate del 2012 e l’aggressione a sfondo sessuale subita spinge la vittima a denunciare la sua compagna d’armi nell’esercito. I dettagli convincono i giudici: si può parlare di «violenza sessuale».
In sostanza, si è appurato che l’imputata è finita sotto processo per avere «costretto la commilitona con violenza e con un’azione repentina, limitandone la libertà di autodeterminazione e di reazione» a «subire atti sessuali», cioè «l’ha abbracciata, l’ha stretta con forza e l’ha baciata sul collo».
Inevitabile la condanna, con pena rideterminata, in Appello, in «otto mesi e ventidue giorni di reclusione».
La lettura data al comportamento tenuto dall’imputata è condivisa anche dai giudici della Cassazione. A loro parere, difatti, è indiscutibile «la natura sessuale» del gesto compiuto. Così come è certa la consapevolezza da parte della donna di «non essere gradita, né fisicamente né sentimentalmente» dalla “vittima” che «non aveva nessuna intenzione di avere approcci sessuali con lei».
Tirando le somme, «il bacio» incriminato «non era un atto con cui si voleva salutare la vittima, che era intenta a partire, quanto piuttosto un comportamento connotato da valenza sessuale». A confermarlo anche «l’ossessività e la morbosità» nutrite dall’imputata verso la commilitona, e testimoniate anche dal contenuto di alcuni messaggi inviati alla vittima.
a cura di Alessandro Gargiulo