
Immagine stilizzata del concetto di Comunità
Una comunità è un insieme di individui uniti tra di loro da rapporti sociali, linguistici e morali, vincoli organizzativi, interessi e consuetudini comuni tali da permettere la condivisione dello stesso ambiente fisico e tecnologico (artefatti), formando un gruppo riconoscibile e più o meno ampio. Ciò però non basta. Per identificare una comunità abbiamo bisogno che gli individui da cui essa è composta possano vantare e/o poter psicologicamente sentirsi appartenenti all’ente comunitario attraverso elementi come una storia comune, ideali condivisi, tradizioni e/o costumi. A volte la lingua parlata e, più o meno scritta, risulta essere l’elemento più fortemente identificativo degli appartenenti ad una comunità. In questa accezione la parola comunità appare così legata per estensione al complesso delle idee che riconducono al concetto stesso di famiglia; questo stesso concetto, per alcuni, giunge sino a contemplare l’intera comunità umana poiché si può presupporre che tutti gli umani abbiano, più o meno consapevolmente, valori e obiettivi condivisi o abbiamo almeno un concetto di diritto comune per quanto concerne l’esistenza umana.
Proprio il doppio livello di comunità di appartenenza (famiglia, luogo territoriale di vita) e umanità (specie) apre la riflessione sul valore psicologico del modo con il quale un individuo si rapporta alla comunità di appartenenza. Nel primo caso l’individuo gode di una rete di protezione che gli consente di evitare traumi, ma che anche limita un suo pieno sviluppo (si resta dipendenti per la definizione del sé dal proprio nucleo familiare il quale, a sua volta, mantiene la propria originaria identità attraverso il mantenimento del legame ferreo con i suoi componenti…insomma, il cambiamento è tollerabile ma solo se vengono mantenuti ruoli e legami originali). Nel rapporto con la comunità il singolo, invece, è più esposto al mondo, ma allo stesso tempo è più libero di sviluppare le sue potenzialità anche in contrapposizione con le altre realtà familistiche che si parano innanzi a volte come alleate (potenziale di accoppiamento), a volte come nemiche (potenziale di attacco/fuga), altre volte addirittura come necessarie per la propria sopravvivenza come nel caso della propria famiglia di origine (potenziale di dipendenza). Se nella società quindi si fa riferimento principalmente ai fini dell’individuo, nella comunità prevalgono gli obiettivi condivisi e la solidarietà (obiettivi che, in un certo senso, possono anche essere vissuti come incomprensibili o addirittura nocivi per i singoli individui).
In tempi recenti si è visto che non è necessario il contatto fisico o la vicinanza geografica per creare un’identità comunitaria, se ci sono comunicazioni efficienti e comuni obiettivi. Si sono, ad esempio, create delle comunità virtuali tramite internet ed i social network più svariati. È comunque da notare come, almeno secondo una prospettiva cognitiva e non certo emotiva, tali comunità esistono perché frutto di scelte precise dei loro utenti che, proprio per questo, potrebbero anche decidere di uscirne e, volendo, poter andare a far parte di altre comunità senza particolari problemi e in tempi ristretti, perdendo così parte del concetto stesso di comunità e facendo ipotizzare che, in un certo senso, le regole applicabili allo studio delle comunità “materiali” non siano universalmente applicabili alle nuove comunità virtuali. Tale ipotesi, come detto, non tiene però conto della volontà ed esigenza dell’essere umano di appartenere, in modo anche multiplo quasi infinito, a realtà umane che sappiano metterlo in contatto con la propria e più intima natura emozionale ed esistenziale.
Oltre alle realtà “virtuali” delle comunità social esistono anche quelle “reali” delle comunità di coresidenza (in inglese cohousing) che esprimono un obiettivo di sostenibilità ecologica della presenza umana sul nostro pianeta. Con tale termine ci riferiamo pertanto ad un vero e proprio “fare comunità”, ovvero ad insediamenti abitativi e/o produttivi aziendali composti da alloggi privati, corredati da ampi spazi comuni (coperti e scoperti) destinati all’uso collettivo e alla condivisione tra i coresidenti (in inglese cohousers). Tra i servizi collettivi vi possono essere ampie cucine, lavanderie, spazi per gli ospiti, laboratori per il fai da te, spazi gioco per i bambini, palestra, piscina, internet cafè, biblioteca e altro. Di solito i progetti di coresidenza coinvolgono dalle 20 alle 40 famiglie che convivono come una “comunità intenzionale” di vicinato (vicinato elettivo) e gestiscono gli spazi comuni in modo collettivo ottenendo in questo modo risparmi economici e benefici di natura ecologica e sociale; se da un lato, infatti, la progettazione partecipata e la condivisione di spazi, attrezzature e risorse agevola la socializzazione e la mutualità tra gli individui, dall’altro questa pratica, unitamente ad altri approcci collaborativi quali ad esempio la costituzione di gruppi d’acquisto solidale, l’auto condivisa o i diversi servizi utilizzati in comune, favoriscono il risparmio energetico e diminuiscono l’impatto ambientale della comunità.
In Italia la coresidenza è iniziata come processo dal basso che, talvolta, ha portato alla realizzazione di comunità come ad esempio gli ecovillaggi, promossi anche attraverso la formazione di veri e propri comitati promotori costituiti spesso in associazioni per la promozione sociale. Tali forme di comunità, comunque, non godono ancora, a differenza delle comunità religiose, di un riconoscimento adeguato da parte dello Stato italiano in quanto non esiste ancora una normativa specifica in merito. In alcune regioni del nostro paese, comunque, si sta cercando una soluzione al problema, ad esempio esplorando la possibilità di nuove forme di innovazione sociale per la gestione del bene comune (affidamento di un immobile in comodato d’uso gratuito per un lungo tempo). Questo diverso approccio di “secondo welfare” (che si affianca al sistema statale di politiche sociali e si apre sia al no profit che al profit) sta aprendo la strada a nuovi modelli abitativi sottoforma di realtà abitative per la terza età oppure con il ripopolamento di insediamenti e cittadine oramai prive di futuro perché prive di individui interessati ad abitarle.

Ma cosa determina, psicologicamente parlando, la differenza che tutti noi sentiamo dentro il nostro animo tra la nostra identità familiare (contraddistinta dal senso del cognome che portiamo anagraficamente) e quella della comunità di appartenenza (territoriale, regionale, nazionale, sovranazionale, virtuale che sia)? Personalmente penso di poter individuare tale rasoio di Occam in un concetto antico e tanto caro a noi psicologi: il tabù.
Come la soglia invalicabile dell’epidermide dell’individuo permette ad esso, in modo profondamente materiale, di discriminare tra un “Me stesso” ed un “Altro da me”, così in una comunità umana un tabù si contraddistingue in una forte proibizione (o interdizione), relativa ad una certa area di comportamenti e consuetudini, dichiarata per questo come “sacra e proibita”. Infrangere un tabù è solitamente considerata una cosa “folle”, ripugnante e da biasimare collettivamente. Il termine, derivato dalla lingua di Tonga (Polinesia), appartiene allo stesso ambiente culturale da cui proviene un altro termine interessate, quello di Mana la cui radice etimologica è accomunabile al concetto occidentale di Anima. È interessante per noi notare come il concetto di tabù ed il suo utilizzo nell’ambito culturale ed antropologico di appartenenza stesse ad indicare la pericolosità rappresentata dal contatto con persone, oggetti e/o azioni isolate perché vietate in quanto potenzialmente capaci di recare per propria natura (o per superamento di essa) un danno derivante dall’acquisizione di una forza o di capacità non controllabili, incerte. Pertanto, quando all’interno di una comunità una certa azione o abitudine è classificata come tabù, essa viene ritenuta come pericolosa per la “sanità” della comunità stessa (e degli individui che la compongono) e quindi vengono istituite proibizioni e interdizioni riguardanti la sfera di attività che la riguardano. Alcune di esse sono sanzionate attraverso pene legali, altre provocano imbarazzo, vergogna e inducono all’insulto. Attualmente gli ambiti nei quali riscontriamo la presenza di svariati tabù sono: restrizioni alimentari; attività sessuali e di relazione; attività corporee; stato degli organi genitali, dell’aspetto e del comportamento; esposizione di parti del corpo; restrizioni nell’uso del linguaggio. Insomma, tutto quello che può riguardare l’espressione dell’individuo in rapporto alla comunità di appartenenza nella misura di ottenimento di forme individuali di libertà accomunabili a quelle possedute dall’Ente Comunità capace di determinare per Sé i limiti della propria libertà di azione. Pensiamo, ad esempio, alle esperienze estatiche di Mistici, Grandi Anime e Profeti narrate nei libri sapienziali di tutto il Mondo.
Anche se non esistono tabù universali, cioè presenti in tutte le culture, alcuni di essi comunque risultano essere ricorrenti per epoche e comunità diverse tra loro. Benché l’incesto sia infatti ritenuto da alcuni un tabù universale, è allo stesso tempo considerato invece una virtù nella religione zoroastriana (almeno tra cugini) ed è attestato come prassi comune nell’Antico Egitto. Tale paradossalità può aiutarci a riflettere sul fatto che le comunità vengono a definirsi non tanto per come si strutturano e definiscono le relazioni tra i propri elementi ma, invece, per come determinano la propria organizzazione e la definizione della propria identità in quanto Entità a sé, complessa perché determinata anche dalla numerosità degli elementi che la compongono e delle relazioni che tra essi intessono o potrebbero realizzare.
Anche per questo, lo stesso Sigmund Freud ha inteso interessarsi dell’influenza dei tabù sul comportamento umano, mettendo difatti l’accento sulla forte componente motivazionale inconscia che porta a considerare necessaria una certa proibizione per l’agire individuale. In questa sua visione, descritta in Totem e Tabù (1913), Freud ipotizza tra l’altro un nesso fra i comportamenti “proibiti” e la “santificazione” di oggetti e simboli appartenenti a determinati gruppi di soggetti fra loro affini. Cioè, ciò che è proibito può in un certo senso determinare la santificazione, la natura sacra di un atto se esso viene ad essere realizzato per conto o in nome della collettività e della sua sopravvivenza. Il sacrificio umano potrebbe così essere, in tal senso, proibito per l’agito della volontà individuale ma, allo stesso tempo, atto sacro operato in favore della propria comunità e della sua Sacralità.
Fare comunità (Lavorare per Essa) diventa allora, anche in senso psicologico, una specie di Atto Sacro (nel senso di sacri-ficio) da parte del singolo individuo; un Fare che permette alla Comunità di Essere. Una Comunità che si fa Madre perché in essa nasce/cresce l’individuo, mentre allo stesso tempo è Padre perché ci invita a delegare ad esso Potere e Fiducia. In tal senso è allora possibile rileggere il testo stesso del Padre Nostro cattolico/cristiano (Mt. 6, 9-13; Luca 11, 2-4) ed il dialogo tra Cristo e Simon Pietro: “«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi».” (Mc. 10, 28-31). In queste parole sembra quasi addensarsi il superamento, dal punto di vista dell’Ente Comunità, della prospettiva individuale che si realizza e diventa tangibile nel tabù dell’incesto fraterno.
Al di là del bene e del male definito dal tabù stesso, nella e per la Comunità che si fa Ente oltre gli individui che la compongono, siamo veramente Tutti fratelli e sorelle e, come tali, dovremmo rispettarci per essere a nostra volta rispettati.

a cura di Salvatore Rotondi