Se volessimo attraversare la Vita di ognuno di noi come si attraversa un Ponte che collega le due sponde di un Lago, la dualità della Terra e del Cielo, del Male e del Bene, del Giorno e della Notte o della Nascita e della Morte, potremmo mai riuscire a scoprire quale può essere l’ultima e quindi primaria essenza dell’umano? Questa è la domanda che questo mese mi assilla e mi tiene sveglio anche quando sto dormendo. Mi viene così alla mente “Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi” (Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister), di Friedrich Nietzsche, scritto nella sua stagione “illuministica” (ovvero nell’autunno del 1976, a Sorrento, poi pubblicato in due parti tra il 1878 e il 1879). Una stagione, quella, che culminerà pochi anni prima del suo crollo nervoso del 1889 (probabile conseguenza di una patologia neurologica). Un testo, questo, che si fa raccolta di aforismi incentrati sull’essere umano e sulla sua “critica” condizione esistenziale durante quella particolare epoca storica. In particolar modo ripenso al concetto di “Freigeist” (spirito libero) caratterizzante il libero pensatore all’interno della società civile.
Mi ritorna in mente, allora, che secondo l’odierna comunità scientifica ci siamo evoluti da popolazioni di ominidi (in particolare la sottotribù Hominina), progenitori degli scimpanzé, circa 5 – 6 milioni di anni fa; che comunque la specie umana (homo sapiens), così come oggi la conosciamo, esiste sul nostro pianeta solo da circa 200.000 anni e che molti studiosi ed antropologi fisici hanno altresì tenuto a rilevare come sia individuabile nella espansione della cavità cerebrale e, più nello specifico, nella riorganizzazione della struttura del cervello uno degli aspetti evolutivi più significativi della nostra specie.
Considerata monotipica, la specie umana sembra manifestare inoltre una importante particolarità: quella di essere un animale sociale, abile nella creazione e sviluppo di sistemi di comunicazione espressivi. Con tali sistemi operiamo ogni giorno, onde raggiungere una continua organizzazione dei nostri simili in strutture sociali composte da gruppi cooperanti e/o in competizione tra loro, fino poi a giungere a grandi unioni umane organizzate attraverso regole, norme e leggi sociali.
Tale inclinazione di specie alla desiderabilità sociale sembra ci abbia così orientato, pur rimanendo biologicamente sempre gli stessi per circa duecentomila anni, verso l’emersione della pratica culturale, ovvero della ricerca di comprensione e manipolazione dei fenomeni naturali e di noi stessi (attraverso la scienza, la filosofia, la psicologia, la mitologia e la religione), conducendoci, mediante tale spiccata propensione alla reciproca curiosità, verso il continuo sviluppo di strumenti tecnologici e abilità individuali e/o collettive. L’Homo sapiens sembra difatti l’unica specie vivente sul nostro pianeta ad utilizzare coscientemente il fuoco, a cuocere i propri cibi, a vestirsi, usando per sopravvivere numerose tecnologie da egli stesso create. Da tali pratiche siamo poi giunti ad esprimere anche un marcato senso di specie per la bellezza e l’estetica che, combinato col desiderio di auto-espressione, ci ha condotto a creative innovazioni culturali quali le arti, comprensive di tutte le discipline musicali, figurative e letterarie. Tale abilità umana di pensare, non solo in maniera concreta ma anche in astratto, è risultata poi alla fine essere unica nel regno animale, nonostante il fatto che gli umani siano solo una delle sei specie animali (oltre a scimpanzé, oranghi, delfini, colombe e elefanti) ad aver superato il “test dello specchio” (ovvero il riconoscimento del proprio riflesso come immagine di sé); tale test però, dobbiamo ricordarlo, viene comunemente fallito da individui al di sotto dei due anni.

L’evoluzione dell’uomo.
Sono forse proprio tutte queste cose che rendono ognuno di noi un essere appartenente alla suddetta specie e detentori della cosiddetta umanità?
E poi, cosa mai sarebbe questa umanità? Secondo il vocabolario, quando parliamo di “umanità” intendiamo riferirci ai caratteri, alle qualità, ai vantaggi e ai limiti inerenti ad una tale condizione, ovvero il suo potenziale creativo ma, ancor più spesso, alla sua fragilità, debolezza, difetti ed all’Imperfezione della nostra natura rispetto a quella della Natura che ci circonda. Dobbiamo allora, proprio prendendo spunto da questa nostra naturale imperfezione, allargare l’orizzonte della nostra riflessione, partendo da quello che ci sembra un assunto fondamentale: la nostra natura sembra qui basarsi costitutivamente sulla rilevazione, elaborazione ed esaltazione della reciproca differenza esistente tra me e l’Altro da me.
È sposando proprio questo orizzonte che l’odierno movimento filosofico nominato “postumano” colloca se stesso in una prospettiva non gerarchica, ovvero riconoscente l’alterità in sé come fondativa del concetto stesso di post-umano, al di là dell’umano, da intendersi come un processo in continuo divenire, caratterizzato da identità mutanti e non da datità fisse ed immutabili. Il postumano in tal senso risulta così in sintonia con l’approccio decostruzionista di Derrida (i sistemi risultano sempre contraddittori, in un continuo processo di decostruzione interna), l’Übermensch (oltre-uomo) di Friedrich Nietzsche, passando per la questione della tecnica e la lettera sull’umanismo di Martin Heidegger, Totalità ed Infinito di Levinas, fino alla nozione di tecnologie del sé di Foucault e del rizoma di Deleuze e Guattari. Il postumano intende cioè condurci entro la natura stessa dell’essere umano, utilizzando strategie alternative alla comune opposizione Sé-Altro, rifiutando la fissa centralità della identità singolare attraverso l’amplificazione della nostra tendenza alla mutevolezza, alla effimericità e nomadicità, ottenendo così prospettive pluraliste, multistratificate, comprensive, ri-conoscenti e il più possibile inclusive. Con questo ultimo termine si intende qui far riferimento al riconoscimento del valore di una possibile pluralità di punti di vista diversi (come, ad esempio, possono essere i sensi di individui formanti un insieme gruppale di persone e/o enti) atti a costruire un quadro di procedure conoscitive che possano rispecchiare più fedelmente i modi, allo stesso tempo unici e plurimi, in cui ciò che esiste e che possiamo esperire si manifesta a noi per quello che è.
È proprio per questo che il movimento postumano ci sembra non reggersi su di un punto di vista unico e gerarchico; in esso, infatti, sembrano non esserci gradi superiori e inferiori di alterità all’intero del complesso sistema dell’humanitas. Difatti, approcciando in questo modo il multiverso dell’umano, decostruendo cioè il paradigma sé/alterità, tale pensiero sembra voler praticamente sostenere che l’umano stesso è già di per sé postumano: cioè un continuo esperimento mentale, capace di espandere la percezione speculativa del sé, attraverso l’ipotesi di una sua possibile espressione mediante un correlato fisico del multiverso reale, in un processo al contempo autonomo e relazionale. Proprio per questo, il pensiero postumano tende a non rilevare alcuna separazione tra teoria, prassi e processo creativo, spingendoci oltre la nostra comune tendenza al dualismo (inteso come processo di scissione), costruendo così una continuità fusiva ma non confusiva tra il nostro modo di pensare passato (tradizioni, riti, culture, etc., uniche e plurime allo stesso tempo) e l’attuale tendenza espressiva dell’umanità globalizzata a riconoscersi in identità situate e mai permanenti (basti pensare al cyberspazio ed alle identità digitali).

Un esempio di tutto questo, oltre alla nostra comune difficoltà a pensarci in tale modo, sono gli eventi, sempre più presenti nella cronaca giornalistica e nelle problematiche di salute psichica, caratterizzati da attacchi al nostro corpo fisico e rappresentazionale. Il fenomeno dell’autolesionismo può così essere letto come un possibile tentativo di ricerca di una relazione viva con sé e con l’Altro da sé, attraversando il segno o la cicatrice sul corpo del singolo individuo, alla ricerca sia del superamento dell’epidermico involucro superficiale di dolore, sia di un confine tra il dentro e il fuori, tra il sé e l’altro, tra l’io e il mondo esterno, tra reale e virtuale, in un immaginario caratterizzato da caleidoscopici Corpi Frammentati, che si mostrano come tali quando il Sé al di là di sé diventa dolorosamente non riconosciuto, non desiderato, incomprensibile e/o incompreso. Contribuire allora alla nostra relazionalità, avvicinarsi all’Altro diverso da noi ed all’Altro da sé dentro di noi, consolidare come fondativi della nostra natura i legami intrecciati, il nostro raccontarci a noi stessi ed agli altri, riflettere su chi veramente siamo, capendo che il mondo della violenza (il mondo del violare, del superare la monoliticità dell’Uno fine a sé stesso) è il nostro mondo, che possiamo cioè addirittura essere o diventare la vittima e il carnefice di noi stessi, può allora aiutarci a comprenderci in modo più intimo. La relazionalità e la processualità infinita diviene così una caratteristica specifica dell’approccio postumano. L’umano è pertanto un processo: si diventa e non si nasce umani. Situato geo-storicamente, il corpo umano può allora essere inteso alla stregua di un testo simbolico di processi cognitivi e sociali, mentre l’identità sembra formatasi attraverso cicli e ri-cicli costruttivi di continue alterità, le cui categorie discontinue e dicotomiche, incarnate in corpi individuali e collettivi, hanno segnato i mutevoli confini di ciò che sarebbe diventato e considerato “umano”.
Il termine Homo sapiens si rivela così a noi come un’appropriata definizione dell’umano stesso: in senso auto-referenziale, il suo sapere di sé è creato per essere compreso e usato dai suoi stessi simili poiché l’uomo, di per sé, non ha nessuna identità specifica, se non quella di potersi ri-conoscere. L’uomo cioè è l’unico animale che, così come quando si guarda in uno specchio (ricordiamoci il test dello specchio citato), deve riconoscersi umano per esserlo. Un riconoscimento, questo, che si fa inevitabilmente inclusivo poiché, visti dalla prospettiva dell’umanità stessa, gli essere umani non solo altro che intra- e inter-azioni relazionali, irriducibili a uno specifico fondamento materiale, proprio per la natura imperfetta e mutevole della natura umana. D’altronde, anche la materia subatomica stessa, nella teoria delle stringhe, è concepita come irriducibile a una singola e determinata entità, in quanto si presenta come composta da minuscoli filamenti o anelli vibranti di energia: una vera e propria essenza che agisce sé stessa attraverso la propria relazionalità.
In prospettiva Postumana, l’interpretazione di quello che potremmo qui definire come l’orizzonte esperienziale dell’umano non arriva a concepire ogni mondo possibile dell’umanità come reale, ma tende a considerare la possibilità di un multiverso formato da un numero indefinito (non necessariamente infinito) di possibili mondi e modi di intendere l’umano. Un multiverso, cioè, di reti generative di possibilità fisiche e mentali che stanno esistendo e co-esistendo simultaneamente. In tale multiverso il sé starebbe costituendo se stesso mentre costituisce (ed è costituito da) indefinite alterità. Questo “te” che crea alterità, riconosce alla materia (come “alterità” rispetto alla mente) piena legittimità ad agire, in forme che possiamo definire come multidimensionali. Possiamo pertanto pensare a tale multiverso come all’attuale Orizzonte/Paesaggio, situato e prospettico, che sta avvenendo in questo preciso istante, qui ed ora; un Paesaggio, però, non univoco e dal quale potrebbero scaturire diversi assemblaggi multiversali da rintracciare nella specificità delle nostre percezioni individuali, gruppali e collettive.
In termini metaforici possiamo pensare a un caleidoscopio multidimensionale, in cui quelle che sono le alleanze modali di espressione dell’umano cambiano in maniera relazionale e mediata, attraverso costanti sincroniche che, nella metafora stessa, sono rappresentate dalle caratteristiche specifiche dei frammenti di vetro. L’uno è quindi molteplice e il molteplice non può esistere in isolamento: la materia è relazionale e la relazionalità si fa concretezza. Le diverse modalità di esistenza ci appaiono così come connesse attraverso nodi specifici, network indefiniti ma non infiniti (Latour, 1998), ovvero vere e proprie dimensioni esistenziali intese come modalità auto-creative, intrinsecamente connesse l’una alle altre.

L’essere umano, in tale prospettiva, si fa allora nodo gordiano del divenire (che continuamente si scioglie e si riannoda), una vera e propria modalità del disvelamento esistenziale. I modi di vivere e di relazionarsi di ogni Entità umana (semplice o complessa che sia) entrano così a parte della rete immanente di chi e cosa siamo: un percorso multistrato alla scoperta del Sé (Margherita, 2012), rivelandosi quale intra-attività relazionale di manifestazioni esistenziali alternative. Un vero e proprio riconoscimento del Sé immerso e, contemporaneamente, costituente una rete multi-dimensionale estesa, paragonabile solo alle grandezze stellari.
a cura di Salvatore Rotondi