Falsa testimonianza nel giudizio civile


Ai fini dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 384, comma 2, c.p., è richiesto in capo all’imputato del delitto di falsa testimonianza, per dichiarazioni rese in un giudizio civile, un interesse nella causa in virtù del quale non avrebbe dovuto essere assunto come testimone ai sensi dell’art. 246 c.p.c. (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 44697/2019, depositata il 4.11.2019).

La Corte d’Appello di Roma ha dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in relazione al delitto di falsa testimonianza contestato all’imputato, condannandolo, avendo ritenuto sussistente la sua responsabilità, al pagamento del risarcimento a favore della parte civile.
La sentenza è stata impugnata per cassazione.

Dalla ricostruzione della vicenda risulta che il ricorrente è stato ritenuto responsabile di falsa testimonianza resa nel corso del giudizio civile intentato da un avvocato nei confronti della figlia del ricorrente per il recupero delle proprie competenze professionali. Egli aveva infatti dichiarato, contrariamente al vero, di aver versato in contanti la cifra richiesta dall’avvocato come onorario per l’attività svolta nel giudizio di separazione della figlia.
Sulla base di tale premessa il ricorrente invoca la sussistenza della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 2, c.p. esclusa invece dalla Corte d’Appello che ha ritenuto la posizione dell’uomo non riconducibile alla previsione di cui all’art. 246 c.p.c. secondo cui sussiste incapacità di testimoniare in capo ha chi abbia nella causa un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio.

Ai fini dell’applicabilità dell’esimente in parola, la giurisprudenza richiede infatti che l’imputato del delitto di falsa testimonianza per dichiarazioni rese in un giudizio civile abbia un interesse nella causa in virtù del quale non avrebbe dovuto essere assunto come testimone ai sensi del citato art. 246 c.p.c.. In tal senso non è però sufficiente un interesse di mero fatto, essendo invece necessario che tale posizione sia qualificabile come «diritto sostanziale giuridicamente tutelabile, tale da determinare l’incapacità a deporre». Deve intendersi, per interesse giuridico personale, un «interesse concreto e attuale a proporre una domanda ed a contraddire, sia sotto l’aspetto di una legittimazione primaria, sia sotto quello di una legittimazione secondaria, mediante intervento adesivo indipendente».
Applicando tali principi al caso di specie, risulta corretta la decisione impugnata che ha adeguatamente ponderato le richieste di pagamento dell’onorario volte dell’avvocato al ricorrente, che si era detto disponibile ad adempiere, puntualizzando però che la legittimazione passiva sussisteva comunque solo in capo alla figlia. In altre parole, tale circostanza è stata correttamente inquadrata come iniziativa solutoria del terzo estraneo al rapporto e fondata sulla solidarietà familiare, risultando inidonea ad integrare la causa del negozio e a modificarne il profilo soggettivo.
La Corte ritiene invece fondata la censura relativa alla quantificazione del risarcimento del danno a favore della parte civile, ritenendo eccessiva la somma liquidata dal giudice di merito. Viene dunque annullata la sentenza impugnata sul punto, con rinvio al giudice civile competente in grado di appello affinché provveda alla quantificazione del risarcimento del danno in virtù dell’effettiva incidenza del reato commesso sulla posizione soggettiva della parte offesa e degli esiti del processo civile.

a cura di Alessandro Gargiulo

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