
Dalla notte dei tempi del pensiero umano, l’Uomo ha inteso sempre confrontare sé stesso e la propria esistenza definendosi a partire dal rapporto intercorso con la Natura. Con questo termine si vuole qui indicare l’Universo, considerandolo nella totalità dei suoi fenomeni e delle forze che in esso si manifestano, da quelli del mondo fisico a quelli della vita in generale. In particolare, nel mondo greco tale visione della Natura prese forma nel mito, poi ripreso nominalmente nel recente secolo passato, della Madre Terra Gaia. Nel 1969, lo scienziato James Lovelock, recuperò infatti tale nome per avanzare la sua cosiddetta “Ipotesi Gaia”, ovvero una teoria (già anticipata da Giovanni Keplero nel diciassettesimo secolo) secondo la quale tutti gli esseri viventi sulla Terra contribuirebbero a comporre un vasto ed unico organismo, capace di autoregolarsi nei suoi vari elementi per favorire, a sua volta, le condizioni generali della vita. Così come per la maggior parte delle discussioni odierne sui cambiamenti climatici, tale definizione di Natura diventa sempre più stringente per la definizione stessa di Noi umani in quanto esseri viventi:
Gaia siamo Noi e ognuno di Noi è Gaia.

Ma nei secoli l’essere umano ha fatto qualche cosa in più che stare, semplicemente, in relazione con il proprio ambiente naturale: ha appreso il modo per trasformare la natura che lo circondava e costruire utensili ed oggetti vari…così come il dio e le divinità, l’Uomo ha cioè definito ciò che lo circondava, proiettando parti di sé e, così facendo, ritrovandosene definito. Tali atti hanno portato poi alla distinzione tra naturale ed artificiale, intendendo con quest’ultimo termine proprio ciò che è stato creato dall’opera o da una mente umana. A seconda del contesto, quindi, il termine “naturale” è divenuto così distinguibile da ciò che all’Uomo poteva sembrare innaturale, soprannaturale o artefatto.
Lo sviluppo della scienza e della tecnologia negli ultimi due secoli hanno d’altronde sottolineato una certa contrapposizione ideologica tra uomo e natura. Difatti, in tal senso, la Conoscenza viene generalmente intesa come uno strumento di dominio della natura piuttosto che un mezzo per vivere in armonia con essa. Allo stesso modo, lo sviluppo della teoria della “legge naturale”, in epoca moderna, ha posto in risalto i diritti dell’Uomo in quanto tale, poiché esso sembra essere dotato dalla Natura stessa di prerogative inalienabili di azione e manipolazione. In tali ambiti sembrano rientrare così, a pieno titolo, le definizioni antropologico-culturali stesse di Uomo civile o Selvaggio. Nel pensiero hegeliano, infatti, l’uomo civile diviene il rappresentante di quella che il filosofo definisce “seconda natura” dell’essere umano, ovvero la sua appartenenza e/o tendenza all’uso di regole, leggi, miti e riti che lo distinguano da una semplice esistenza come elemento della Natura a cui comunque appartiene. Detto in un altro modo, con la Civiltà l’Uomo accede ad una forma naturale, ad un campo di esistenza, da lui stesso definito, posto in essere e di cui solo Lui è capace di porre limiti e Possibilità. Potremmo quasi paragonarlo alla oramai abusata definizione dello “spazio dell’Immateriale” che, personalmente, piace definire “l’Universo della Vitalità” o “spazio del mentale”. Con il termine Vitalità si vuole qui fare riferimento a tutte quelle condizioni e caratteristiche proprie di una entità vitale, capace cioè di vivere e sopravvivere in modo efficiente ed operativo, non però necessariamente in modo autonomo e indefinito, rispetto agli elementi che la compongono. In tal senso, quindi, sembra non errato andare ad indicare come vitali tutte quelle realtà ed entità collettive umane (dai gruppi, alle associazioni, fino a giungere alle istituzioni, nazioni, culture, etc.) capaci di esprimere tali elementi distintivi. Potremmo quasi arrivare a ritenere la tendenza aggregativa dell’essere umano come la caratteristica, espressione vitale del suo superarsi in quanto individuo per farsi elemento distintivo di una Natura sempre più cosciente di sé quanto più aumentano i propri gradi di complessità espressiva. Una Natura al di là dell’umano, inteso come suo elemento, come Ente che si fa garante dell’umanità stessa ed in cui l’umanità può riscoprirsi veramente umana.
In un certo senso, ricorre allora qui un’altra parola greca, ovvero Aletheia (ἀλήθεια); il suo significato letterale richiama allo stato di ciò che diviene evidente, fattuale o reale, ma essa viene anche comunemente tradotta come “dischiudimento”, “svelamento”, “rivelazione” o “verità”. In riferimento a questa ultima traduzione, il filosofo esistenzialista Heidegger intese sottolinearne la valenza come Lichtung, ovvero lì (il luogo, l’Essere come Tempo) dove si dispiega la Presenza della Verità.
Riprendendo quindi il pensiero heideggeriano insito nel saggio “La fine della filosofia e il compito del pensiero” (Tempo ed Essere, 1962), tutto ciò che è opera dell’Umano diviene così luogo, mezzo ed opera d’arte attraverso il quale dispiegarne la verità ed il senso della sua Esistenza. Opera dell’Umano, quindi, è la sua stessa tenenza alla relazionalità non solo con i suoi simili ma con tutto ciò che lo circonda e che, solo per differenza dalla definizione di sé, gli si presenta come mezzo inanimato, pronto alla manipolazione o, se si vuole, addirittura alla sua distruzione/scomposizione in elementi minimi.
In tal senso, allora, ritroviamo una profonda concordanza tra tale concezione dell’esserci dell’Umano e la sua attuale tendenza ad una società volta a dimenticarsi della “rivelazione” che è insita nelle proprie azioni e l’osannato potere trasformativo dato alla tecnica, sia essa materiale (produzione manifatturiera industriale) e/o immateriale (produzione ingegneristica, come ad es. l’internet delle cose) . Difatti, il concetto di tecnica (dal greco τέχνη [téchne], “arte” nel senso di “perizia”, “saper fare”, “saper operare”) risulta essere l’insieme di tutte quelle norme (acquisite empiricamente attraverso esperienza diretta, come nel lavoro artigianale, oppure mediante conoscenze scientifiche specializzate) applicate in un’attività, sia essa intellettuale o anche manuale, attraverso l’adozione di un metodo e di una strategia volta alla identificazione degli obiettivi e dei mezzi onde raggiungerli.
Ciò che la tecnica o, potremmo azzardare, la tecnologia dell’essere umano di oggi ci svela è quindi la tendenza a manipolare e ritenere profondamente come inanimato tutto ciò che ci circonda, esponendo l’Umanità stessa allo stesso pericolo: rendersi inanimata. L’aggettivo inanimato sta comunemente ad indicare ciò che è senza anima, senza vita, privo di vitalità ovvero di tutte quelle entità che, nella loro analiticità, si presentano come appartenenti, per loro natura, alle classi dei regni minerale o vegetale; entità, quindi, oggettuali. Come non è possibile condannare qualcuno senza che venga superato ogni ragionevole dubbio, oggi è possibile definire con tanta facilità ciò che è Oggetto da ciò che si pone come Soggetto innanzi a Noi? L’assenza di vitalità in un corpo umano rende quest’ultimo nostro oggetto? Come la mettiamo con i sentimenti vitali che quel corpo (per coloro che lo hanno amato) suscita ancora negli altri? La Morte ci ricorda e ci pone sempre innanzi questo dilemma tra: Essere o non-Essere. Ma chi è che ha diritto di pronunciare l’ultima parola? Chissà, forse un Ente che può dimostrare di essere ancora Vitale quando la vitalità sembra intorno a sé svanire.

D’altronde, un Ente si può dire animato quando, appunto, sembra dotati di anima, di vita, di movimento, di capacità di produrre e/o elaborare informazioni tenendosi lontano da una quasi (e prima o poi) inevitabile entropia. Chissà, da questo punto di vista forse tutto ciò che ci circonda può allora iniziare a prendere vita, ad acquisire movimento, animandosi attraverso il disvelamento di sé posto dalle nostre più comuni relazioni ed inter-azioni. Guardare al “creato”, alla Natura che ci circonda, che esiste animatamente prima di Noi e che non è scontatamente detto che continuerà ad esistere, ci permetterà allora di riscoprire le radici più intime della nostra stessa natura, il nostro posto in ciò che è ed esiste ma, soprattutto, la possibilità di ritrovare Noi stessi, per andare al di là degli stessi limiti imposti dalla manipolazione e trasformazione di ciò che, erroneamente, continuiamo a porre come inanimatamente lontano dal nostro stesso Esserci come Enti vitali.
a cura Salvatore Rotondi