La Consulta continua la sua opera di “puntellatura costituzionale” dell’art. 4-bis della L. 354/1975 (Legge di Ordinamento Penitenziario)


L’articolo 4-bis ord. penit., rubricato “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”, contiene un elenco di diversi ed eterogenei reati (c.d. “ostativi”), attorno ai quali il legislatore ha progressivamente costruito un meccanismo di presunzione di pericolosità sociale del detenuto. Tale presunzione – di carattere assoluto e che inevitabilmente opera un richiamo al c.d. “diritto penale d’autore” – risulta superabile solo attraverso un’utile collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter ord. penit. In assenza di tale collaborazione è precluso l’accesso a qualsiasi beneficio penitenziario e misura alternativa alla detenzione, con la sola esclusione della liberazione anticipata.

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo de quo.

Segnatamente, con sentenza n. 253/2019, la Consulta ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale «nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati (…) possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti». Tale accostamento prende forma e si declina sulla base di un iterlogico volto a demolire la citata presunzione assoluta insita nel disposto dell’art. 4-bis, co. 1,ord. penit., che risulterebbe, all’esito dell’operato scrutinio di legittimità, contrastare con gli artt. 3 e 27, comma terzo, Cost.  Invero, «il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. dal d.l. n. 306/1992», in quanto espressione di una chiara opzione di politica investigativa e criminale, si sostanzia in uno scambio tra informazioni utili alle investigazioni e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario: il tutto grazie ad una proficua ed utile collaborazione prestata del detenuto ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit.

La conseguenza di tale automatismo è evidente: ogniqualvolta un detenuto non collaborante, condannato per uno dei delitti inclusi nell’elenco dell’art. 4-bis,co. 1,ord. penit., avanzi un’istanza per accedere ad un beneficio penitenziario (incluso il permesso premio ex art. 30-ter ord. penit.), quest’ultima verrà immediatamente dichiarata inammissibile dal Magistrato di Sorveglianza, senza che quest’ultimo possa in alcun modo entrare nel merito dell’istanza.

La Corte Costituzionale, pertanto, ha accolto i dubbi di costituzionalità espressi dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia, rispettivamente con ordd. n. 59 e 135 del 2019. La Corte, infatti, non ha potuto non rilevare come l’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., anche qualora si volessero privilegiare esigenze di carattere investigativo e di politica criminale, «o per[i] una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare (rectius, diritto al silenzio) ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit., che certo l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto».

L’operatività della presunzione assoluta del collegamento con la criminalità organizzata in assenza di utile collaborazione finisce, secondo la Corte, per ledere il principio del “nemo tenetur se detegere”, costringendo, attraverso un ingiustificato automatismo, il detenuto ad autoincriminarsi, anche per fatti non ancora giudicati. Oltre a tale conseguenza, già di per sé deprecabile, si assiste alla nascita di un gravoso onere di collaborazione, che postulerebbe la denuncia a carico di terzi soggetti (carceratur tenetus alios detegere).

In questo senso, sia i giudici remittenti che la Consulta, ritengono che possano sussistere disparati motivi per cui il detenuto decida di non collaborare, non automaticamente sintomatici di un persistente collegamento con la criminalità organizzata. In via meramente esemplificativa, la scelta di non collaborare potrebbe essere dettata dai timori per la propria e l’altrui incolumità, in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio, non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i reati; il rifiuto di causare la carcerazione di altri, con i quali si abbia o si sia avuto un legame familiare o affettivo; il rifiuto di accedere alla collaborazione perché non si vuole essere tacciati di averlo fatto soltanto per calcolo utilitaristico, per una riduzione di pena o per ottenere un beneficio penitenziario. 

Ulteriore profilo di dubbia costituzionalità è rappresentato dall’inevitabile declaratoria d’inammissibilità in limine della richiesta di permesso premio, senza che vi sia la possibilità di alcuna valutazione di merito relativamente al caso concreto, alla personalità del detenuto, al percorso di risocializzazione intrapreso e ad altri elementi utili per la concessione del beneficio. L’automatica inammissibilità dell’istanza, infatti, arresterebbe sul nascere il percorso riabilitante per cui la detenzione, extrema ratio punitiva, è preposta. 

Tutto ciò, a parere del Giudice delle Leggi, risulterebbe non conforme agli artt. 3 e 27, comma terzo, Cost.

In estrema sintesi, la Corte ha ritenuto la presunzione assoluta di pericolosità sociale e di collegamento con gruppi criminali di stampo mafioso non conforme al dettato costituzionale. Sebbene il legislatore sia libero di adottare presunzioni legali, queste ultime non possono essere insuperabili, se non attraverso un unico contegno: la condotta collaborativa. È possibile, infatti, che il Magistrato di Sorveglianza disponga di elementi validi ed idonei perché possa, in serenità e nel rispetto del dettato costituzionale, concedere un permesso premio al detenuto non collaborante, laddove risulti ormai scollegato dai circuiti criminali di vecchia appartenenza e non vi sia il concreto rischio di un ripristino di tali collegamenti.

Sarà interessante conoscere come si svilupperà, sulla scia dell’analizzato tracciato esegetico, la giurisprudenza costituzionale con riguardo alla paventata illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. penit (già oggetto di attenzione da parte della Corte EDU, con la sentenza 13 Giugno 2019, Viola c. Italia) ed all’applicabilità del medesimo censurato meccanismo con riferimento agli altri benefici penitenziari, incluse le misure alternative alla detenzione. 

a cura di Carmine Sgariglia

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