«La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.» (1984 – George Orwell)

Il 5 aprile del 1926, negli Stati Uniti, esce il primo numero della rivista Amazing Stories: è la nascita della Fantascienza di massa o Science Fiction (Sci-Fi). Difatti, non possiamo non ricordare e annoverare nel genere le opere di May Shelley, i romanzi di Verne e di Wells, nonché tutte le opere di divulgazione che, dalla fine del XIX secolo in poi hanno inteso diffondere, attraverso il mezzo comunicativo della narrativa, il sapere e le conquiste scientifiche (raggiunte e/o sognate). Un caso questa data? Poco probabile, come in ogni cosa che riguarda il genere umano e che risulta incomprensibile per il singolo individuo. Una umanità, infatti, sempre più interessata alle “nuove frontiere” del progresso e sempre più vicina al contatto con la realtà del vacuo profitto della finanza di Wall Street, attirata dalle sirene della realizzazione di una tangibile utopia di libertà e benessere, spingeva sé stessa sempre più in là, al di là dei limiti imposti dalla quarta dimensione (il Tempo), per immaginare la Vita che verrà (così come ogni fine d’anno aspettiamo l’anno che verrà…).
Fantascienza, la frontiera della diversità
Una delle componenti più eccezionali della immaginazione fantascientifica (la quale, per essere credibile, deve sempre mantenere una verosimiglianza con la realtà vissuta del tempo in cui vive il lettore/spettatore… un vero e proprio ancoraggio allo stato di coscienza condivisibile dell’individuo con i suoi simili) riguarda, paradossalmente, uno dei temi per me più importanti e pregnanti del presente: l’espressione e l’esaltazione delle Diversità che attraversano e superano il Tempo. Difatti, nelle storie fantascientifiche i personaggi, oltre che esseri umani, possono essere alieni, robot, cyborg, mostri o mutanti; le storie, invece, possono essere ambientate nel passato, nel presente o nel futuro, qualunque esso sia.
Con il boom della televisione, anche la fantascienza raggiunge nuove “frontiere” per la sua diffusione di massa: le serialità televisive e le trasposizioni delle storie dalla carta al tubo catodico. Pensiamo solo agli “Universi” futuristici o “Lontani lontani” proposti a partire dagli anni ’60 – ’70 del secolo scorso attraverso le saghe di Star Trek e Star Wars. Eppure, come sempre accade quando sta per finire un millennio o un’era (e si entra in un Tempo cosmico diverso da quello vissuto dalla nostra specie), l’Uomo guarda a sé stesso come una Entità critica, in crisi, in cambiamento al di là da sé e dalle convenzioni. Ed è così che, a dominare la scena nei primi anni ’80 (con il sottofondo della continua angoscia per un probabilistico olocausto nucleare) arriva l’ondata cyberpunk. Dopo lo Spazio esterno tra le stelle e quello psichico degli spettri di coscienza accessibili attraverso ingegneria genetica o droghe sintetiche, arriviamo a quello virtuale delle tecnologie informatiche e della telecomunicazione. In un certo senso, possiamo dire che la stessa Internet sia stata profetizzata (anche se già ne esisteva una prima forma embrionale) nel 1984 dal romanzo più celebrato del cyberpunk: “Neuromante” (di William Gibson) dove troviamo una prima definizione e formulazione dell’oramai famosissimo cyberspazio. La frontiera tra essere umano (animato) ed entità altre (inanimate) era stato così intravisto, attraversato ma, ancora oggi, non ancora superato. D’altronde, come la stessa trilogia di Matrix ci insegna, non sappiamo ancora chi ha più dignità di esistenza: l’uomo o la macchina? Un giorno finiremo per fonderci oppure raggiungeremo una simbiosi perfetta? E’ chi comanderà su chi? Se non ci piace questa realtà o la scelta che abbiamo fatto, possiamo tornare indietro? Che potere ha il singolo, che valore ha la singolarità, in tutto questo? Le macchine, il digitale, standardizza tutto e tutti…dove andranno a finire le peculiarità creative della natura umana, ovvero i suoi “errori”, i suoi “rumori”, le sue “diversità” uniche? Tutte queste domande ed i timori che le accompagnano, così come accadde dopo il 1929, generarono nuovi scenari cupi: arriviamo all’Alba della narrazione distopica.
Non bisogna però dimenticare che, in questo stesso periodo a cavallo tra il nuovo millennio e il suo primo decennio, molti autori di sci-fi presero due vie interessanti: alcuni si diedero all’horror ed al giallo (come se fosse il loro modo per esorcizzare i demoni e le paure di un futuro oltremodo inumano e pauroso) mentre altri si diedero al fantasy ed al recupero di memorie antiche e di tradizioni culturali molto lontane nel tempo, del mito del passato come epoca d’oro e di comprensione empatica umana, non disdegnando di unire e, a volte, fondere nelle loro narrazioni elementi una volta antitetici come magia, scienza e tecnologia. Non voglio dilungarmi sul fantasy ma voglio semplicemente far presente come la nascita del primo supereroe dei fumetti (Superman) fosse datata (guarda un po’) 1938…ed oggi possiamo dire di essere realmente circondati da narrazioni e produzioni multimediali legati ad eroi e superpoteri, dove un “egoistico” Uomo-Macchina (Tony Stark, alias Iron-man) salva filmicamente l’umanità sacrificando sé stesso per evitare la realizzazione di un Universo Distopico (per i popoli delle Galassie) e del futuro Utopico tanto desiderato dall’alieno Thanos (prototipo dell’Individualità portata all’eccesso o, addirittura, al di là dello stesso fanatismo narcisista). Come sempre la Storia cambia a seconda dei punti di vista: ciò che è distopico per uno può essere utopia per l’altro.
Utopia e distopia
Il termine distopìa o cacotopia (coniato nel 1868 dal filosofo John Stuart Mill, è composto dai termini del greco antico “δυς-” (dys) = “cattivo” (un prefisso che rafforza il concetto assolutamente negativo di contrarietà, difficoltà, dubbiezza) e “τόπος” (topos) = “luogo”) si contrappone così, in tutte le nostre rappresentazioni di un Tempo che si fa Spazio (ovvero un Luogo, un Campo, una Regione tanto del corpo quanto della nostra mente individuale e/o collettiva), al concetto di utopia, inteso come il luogo dove tutto è come dovrebbe essere. Distopia è quindi l’esatto opposto, cioè un luogo del tutto spiacevole e indesiderabile.
Le opere distopiche (come appunto 1984 di Orwell) ci appaiono così come prodotti della mente umana volti all’avvertimento, o come satire del mondo, atte a mostrarci le tendenze negative attuali che sviluppandosi potrebbero raggiungere dimensioni apocalittiche. La distopia, quindi, intende descriverci i pericoli che i suoi autori percepiscono nella società attuale, collocandoli però in un contesto distante nel tempo e nello spazio, come per “proteggere” e non caricare di urgenze insostenibili gli individui che, di per sé, non hanno il minimo potere (o superpotere) per influire sulle macro-vicende della umanità. Individuo-vittima e, allo stesso tempo, carnefice di sé stesso (basti ricordare il discorso ai cittadini di Londra fatto dal terrorista V nel fumetto e, poi, nella trasposizione cinematografica della novel “V for Vendetta”).

Utopia e Distopia, comunque, condividono un elemento per l’essere umano totalmente imprescindibile: il Tempo (basti pensare al modo in cui lo Stregone Antico spiega, nel film “Avengers: Endgame” (2019), ad un Hulk-Bruce Banner come il flusso dell’Esistenza, se turbato dall’uso delle Gemme del Potere, possa creare Mondi alternativi tragici e carichi di morte).
Il Tempo, la quarta dimensione
Il tempo è la cosiddetta quarta dimensione, ovvero quella nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Tutto ciò che si muove nello spazio e/o si trasforma è così descritto anche a livello temporale; pensiamo, ad esempio, alla distinzione tra giorno e notte dovuta alla rotazione della Terra attorno al suo asse o il suo stesso percorso intorno al Sole, che determina così le variazioni stagionali e la durata dell’anno. È in tal senso che il tempo si fa dimensione fisica correlabile con quella spaziale: un dato esperienziale materiale, qualitativo e quantitativo allo stesso tempo. Proprio questa dimensione Esistenziale, di inizio e fine, di nascita e morte, esprime la contraddizione insita nel Tempo materiale rispetto a quello dell’immateriale, del simbolico, dello psichico: l’essere di un oggetto è difatti attestato dalla sua identità (nel tempo), ovvero dal suo permanente esistere; il divenire, invece, (caratteristica propria del tempo) presuppone la trasformazione, ovvero la diversità (della forma), per cui impone un “prima” e un “dopo”, vale a dire un (intervallo di) “tempo”. Il Tempo pertanto trae origine dalla possibilità dell’azione di trasformazione (o della trasmutazione se ci riferiamo al Tempo nella sua espressione immateriale, psichica, spirituale).
La percezione del “tempo” prende così forma dalla presa di coscienza (intendendo far riferimento, con tale termine, allo stato di veglia comune, senza per questo negare i cosiddetti stati alterati di coscienza, ben descritti dalle tradizioni culturali di diversi popoli terrestri) che la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata. Se si presta attenzione al susseguirsi dei pensieri di un individuo o ai battiti del suo cuore, fatti fisiologici, e in ultima analisi, fisici, possiamo avere una concezione valida di quello che si intende con il concetto di “intervallo di tempo”. La mente, quindi, permette di superare la misurazione del tempo quantitativa, trasformando la stessa in una qualità capace di connettere Essere e Non-Essere, possibile e probabile; un ricordo della memoria (il passato); una interpretazione del reale (il presente) al momento della percezione; una previsione ipotetica (il futuro), proiezione di Sé guidata da ragione e passione. È proprio così che eventi (fatti scelti dalla mente) distinti/diversi tra loro possono essere vissuti come sincroni/simultanei oppure distanziarsi in proporzione a un certo numero di cicli di un determinato fenomeno (diacronici). Da tali assunti e per spiegarli ai più, nei cicli del tempo umano avente un senso comune (la Storia), molti pensatori hanno inteso utilizzare paradossi (Zenone), metafisica (Parmenide), eternità e moto (Platone e Aristotele) ragione e ordine divino (Sant’Agostino) onde definire il Tempo. Ma la vera rivoluzione l’abbiamo con il filosofo tedesco I. Kant che ribadisce, una volta per tutte, come il Tempo sia, insieme allo spazio, una “forma a priori della sensibilità” del soggetto umano, del suo “Io penso”, della sua mente: la materia fisica ed il suo tempo misurabile dagli orologi in modo oggettivo si confronta così con la relatività mentale del tempo soggettivo ritrovandosi, da quest’ultima, superata proprio per le sue capacità immaginifiche, quasi al limite della preveggenza, del vedere ciò che non è al di là di ciò che è. Così come Kant, più di un secolo dopo, il filosofo francese Henri Bergson ribadì il fatto che il tempo come unità di misura dei fenomeni fisici si risolve comunque in una spazializzazione (come ad esempio le lancette dell’orologio) in cui ogni istante è sì rappresentato ma sempre identico a tutti gli altri; il tempo originario, invece, si trova nella nostra coscienza che lo conosce mediante intuizione; esso è quindi soggettivo e, istante per istante, sempre diverso (anche se correlato attraverso lo stato di coscienza). La distanza tra fisica e mente resta tale fino all’opera di A. Einstein ed alla sua teoria della relatività. Anche qui, come per Zenone, Einstein dovette utilizzare dei paradossi “fantascientifici” per descrivere alcuni effetti previsti dalla sua teoria. Uno di questi è il cosiddetto paradosso dei gemelli, in cui uno parte per un viaggio interstellare con un’astronave capace di andare a una velocità prossima a quella della luce, mentre l’altro rimane sulla Terra. Il gemello rimasto sulla Terra dovrebbe aspettarsi che il tempo sia trascorso più lentamente per il gemello astronauta, e quindi che quest’ultimo apparirà più giovane quando i due si incontreranno nuovamente sulla Terra. Ma il gemello astronauta, facendo lo stesso ragionamento nel suo sistema di riferimento, si aspetta invece di trovare più giovane il gemello rimasto sulla Terra: in questo consisterebbe il paradosso. È in tal senso che la teoria della relatività cambia radicalmente la nozione di simultaneità (due eventi possono avvenire contemporaneamente per un osservatore ma non per un altro). Se difatti esistesse un corpo fisico in grado di viaggiare a velocità maggiore di quella della luce, rispetto a qualche osservatore esso apparirebbe viaggiare all’indietro nel tempo. Ciò che appare a noi simultaneo, pertanto, non significa che possa essere parimenti percepito come tale: nell’intimità del Sé, nello spazio del Sogno (ad esempio), il trascorrere del “mio Tempo” resta così “diverso” seppur co-presente dal tempo dell’Altro, del Noi che, proprio per questo, potrebbe mostrarsi alla collettività umana come Eterno.

Prendendo proprio spunto dai propri sogni, un ingegnere J. W. Dunne pubblicò una teoria del tempo in “An Experiment with Time” (1927). In tale testo egli considerava la nostra percezione del tempo come simile alle note suonate su un piano. L’eterna scala delle note della tastiera, differenziate da toni armonici diversi tra loro, compone così una infinità di suoni, di percezioni, tanti quanti potrebbero essere le vibrazioni possibili di stringhe capaci di creare e descrivere Nuovi Mondi. Le sinfonie, in tal senso, potrebbero descrivere dialoghi amorevoli o cacofonici tra realtà diverse tra loro ma comunque accomunabili.
Chissà, forse è proprio lì, nello spazio onirico della mente umana quella parte di Noi stessi capace di raggiungere la dimensione al di là del tempo cosciente, ovvero il tempo quantizzato, quello cioè capace di superare il “tempo di Planck” (ovvero il tempo che impiega un fotone che viaggia alla velocità della luce per percorrere una distanza pari alla lunghezza di Planck; la più piccola quantità di tempo tecnicamente misurabile).
Il Sognatore, creatore di mondi
D’altronde, è proprio il Sognatore che, come L’Utopista (Sci-fi o Fantasy che sia), non accetta la Realtà così come gli appare, non si accontenta ed esprime sé e le proprie aspettative attraverso la creazione di mondi virtuali che si presentano al pensiero comune come impossibili, ideali, modelli del mondo come dovrebbe essere ma non gli è consentito dalla realtà condivisa con i propri simili attraverso il pensiero comune. Il termine utopia, coniato dal filosofo Tommaso Moro, deriva difatti dal greco οὐ (“non”) e τόπος (“luogo”) e significa “non-luogo”. Il tale termine, però, è presente in origine un gioco di parole con l’omofono inglese eutopia, derivato dal greco εὖ (“buono” o “bene”) e τόπος (“luogo”), che significa quindi “buon luogo”. Questo dà quindi origine ad un doppio significato: un luogo buono/bello ma parimenti inesistente, o per lo meno irraggiungibile al nostro Essere individuale attuale ed al potere concessogli ma come meta almeno pensabile e, forse, realizzabile collettivamente: una soluzione per la Legge di Murphy e per quell’Amore quantizzabile così ben descritto nel film Interstellar (2014) diretto da Christopher Nolan.

Quindi chissà, al di là ed alla fine del nostro Tempo, del nostro Spazio, della nostra Realtà e della nostra attuale Virtualità…Nuovi orizzonti di utopica Speranza sono ancora pensabili e, forse, possibili attraverso lo sconfinato Potere della nostra imperfetta Immaginazione umana…al mio Sé sognante, alla fine di quest’anno solare, piace pensarla così!
a cura di Salvatore Rotondi