Diffamazione a mezzo stampa: irrilevanza del tono dubitativo


Confermata la condanna per “diffamazione a mezzo stampa” del direttore di un periodico per l’articolo in cui veniva comunicata al lettore la possibile esistenza di un accordo segreto tra amministratori pubblici ed esponenti politici, anche di schieramenti opposti, per la realizzazione di una speculazione edilizia illecita.

Irrilevante il tono dubitativo utilizzato nel pezzo: ciò non basta ad escludere la responsabilità per lo scritto, ritenuto diffamatorio (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 8/2020)

A finire sotto accusa è il direttore della testata – un periodico – per la pubblicazione di un articolo in cui si parla – come è evidente sin dal titolo – di “accordo segreto” e “speculazioni immobiliari” coinvolgenti esponenti politici di partiti avversari.
I dettagli del ‘pezzo’ giornalistico sono inequivocabili, secondo i giudici di merito, che, di conseguenza, ritengono il direttore colpevole di «diffamazione a mezzo stampa», peraltro «aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato».
Irrilevante il richiamo difensivo al passaggio del pezzo in cui si specifica che “se la notizia risultasse fondata, si tratterebbe di speculazione illecita, attuata con trasversalità politiche che lasciano ipotizzare un sostrato di corruzioni che attraversa partiti politici anche contrapposti”.

Inutile si rivela, infine, il ricorso proposto in Cassazione dal legale del direttore della testata. Anche per i giudici di terzo grado, difatti, è legittimo parlare, in questo caso, di «diffamazione a mezzo stampa».
Condivisa in toto la linea seguita in Appello, laddove si è sottolineato il ‘cuore’ dell’articolo, cioè «l’avere ipotizzato l’esistenza di un accordo trasversale tra esponenti politici appartenenti a diversi schieramenti, teso a realizzare una speculazione edilizia privata cui sarebbe sottesa la conclusione di accordi corruttivi». Proprio questo passaggio, o, meglio, «l’informazione fornita al lettore», inchioda il direttore alle proprie responsabilità, poiché, nella sostanza, si è sostenuto che «l’amministratore pubblico» – il sindaco, per la precisione – «aveva acconsentito ad accordi tesi a favorire interessi privati in cambio di utilità di natura corruttiva», eppure «tale dato non era accompagnato nell’articolo dall’indicazione di elementi da cui trarre la verità della notizia», non essendo sufficiente il richiamo a una presunta «fonte confidenziale romana».
Nessun dubbio, quindi, per i giudici della Cassazione, sul fatto che «l’accostamento delle attività del sindaco al “sostrato di corruzione” di cui parla l’articolo ha avuto carattere diffamatorio per un pubblico amministratore, accusato così di un fatto illecito, cioè di avere mercificato la funzione a beneficio di interessi privati in spregio a quelli pubblici che aveva il dovere di tutelare». E in questo contesto è significativo, per i giudici, anche «l’utilizzo del termine “corruzione”, termine non equivocabile, trattandosi di una espressione dotata di un preciso significato penalistico che all’articolista non poteva sfuggire e che richiama una figura di reato che punisce il pubblico ufficiale che riceva denaro o altra utilità per assecondare gli interessi di un privato».
Inutile poi il richiamo difensivo al «tono dubitativo» del ‘pezzo’ giornalistico, poiché «il messaggio veicolato al lettore è, nonostante la forma ipotetica utilizzata, che il sindaco abbia potuto avallare una speculazione privata illecita e che lo abbia potuto fare mercificando la propria funzione», e ciò è sufficiente, concludono i giudici, per «ritenerne lesa la reputazione».

Alessandro Gargiulo

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