Dall’episodio precedente… le porte erano chiuse a chiave, non c’erano le scale e non vi era alcuna via di fuga. Si ricordò della stanza polverosa e la strana porta posta sulla destra all’interno della stessa. Che schifo questo Tribunale, si disse, non ci sono scale e, a questo fottuto piano 30 solo un’ascensore. Adesso gli faccio vedere io a questa gentaglia, faccio un casino, prima esco da questa prigione e prima chiamo tutte le televisioni e i giornali del paese e gli faccio fare una di quelle figure di merda così grandi che non se la dimenticheranno mai più. Schiumante di rabbia, Grenouille rientrò nella stanza polverosa con la scritta C.a.n., chissà poi che voleva dire maledetta scritta, la esaminò perché l’istinto gli disse che era davvero insolito che una stanza all’interno di un Vecchio Palazzo di Giustizia fosse ridotta così, con un calcio aprì la porta di ferro sulla parete sinistra, varcò la soglia e fu inghiottito dal buio del cunicolo.

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La porta si apriva su di una scala in discesa. E il fatto che vi fossero delle lastre che al soffitto emanavano una flebile luce, irritò non poco l’avvocato Grenouille. “Non ci posso credere!” sbraitò “ma come si fa, all’interno di un Tribunale, tenere una scala in queste condizioni?”
Preso alla gola dal Tempo, decise di turarsi il naso e posò il piede destro sul primo gradino. Che vadano al diavolo, pensò tra sé, questi qui sono dei criminali. Parlerò con il Presidente di questo schifo che chiamano “Il Palazzo delle Torri”. Eppure non riusciva a crederci, l’intera mattinata era stata spesa in un giro assurdo e senza senso in quell’edificio maledetto, ai confini della realtà e senza alcun motivo raziocinante. Per ogni gradino, un pensiero faceva breccia nel cervello. Effettivamente era strano. Che fosse stato un complotto ai suoi danni? L’Ufficio delle Produzioni “messe da parte” di cui non aveva mai sentito parlare, l’atteggiamento tremante del Sig. Marmotte ed i suoi timori… forse tutto ciò nascondeva altro? E perché lui? Perché qualcuno avrebbe dovuto complottare contro di lui? D’altronde, era un avvocato semplice neanche troppo conosciuto.
L’aria era pesante, come quando d’estate si riempie di umidità, e a Grenouille pareva di scendere attraverso una coltre di nebbia, quasi stesse attraversando dei veli sottili. C’era odore forte di naftalina e da lontano lo raggiunsero delle note che sembrò di riconoscere. Gli venne in mente il bel canto del suo grande amore al quale non si era mai dichiarato per paura di essere respinto. La bellissima Rossignol, la creatura più dolce e delicata che avesse mai potuto conoscere da sveglio. L’aveva amata molto in gioventù ma il ricordo di quella passione tornò a riaccendergli il sangue nelle vene, per cui si concentrò per scacciarla dalla sua mente. Lei e i suoi capelli di seta color dell’oro brillante.
Forse mi sto avvicinando al piano di sotto, pensò. Eppure gli sembrò di aver camminato per almeno una mezzora, la scala continuava ancora più giù senza dare segno di soglia alcuna.
Si dannava il pover Grenouille nella sua corsa contro il Tempo, nel timore di non riuscire ad arrivare in tempo al suo studio per mettere mano all’appello in scadenza e già pensava alle conseguenze. Come avrebbe fatto a dirlo alla cliente? E con l’anticipo già speso per pagare la rata trimestrale al Banco della Solidarietà, l’ente che corrispondeva agli avvocati anziani la tanto desiderata pensione.
“Che siano maledetti” bofonchiò “pure per il culo ci prendono, lo chiamano il Banco della Solidarietà, ma di quale solidarietà parlano? Giuro sull’anima di mio padre che non pagherò più un centesimo del mio denaro per quel branco di Farabutti”, rievocò suo padre, il vecchio Crapaud Grenouille, tanto grasso quanto saggio: “Quando sarai grande figlio mio, cerca di farti sempre gli affari tuoi e non pensare al concetto del “bene comune”. Nel nostro mondo è idea ormai obsoleta. Il paese pensa a sé, e tutti lo imitano. Quindi non perdere tempo a cambiare le cose, tanto se le cose cambiano lo fanno comunque da sole. Gli uomini si illudono di valere qualcosa, ed invece non valgono proprio un bel niente, tutto si riduce ad essere solo una questione di fortuna”. Di suo padre, Grenouille ricordava la giacca di velluto rosso doppia e le scarpe con le ghette. Quel suo sigaro puzzolente e il suo monocolo nel quale introduceva l’occhio grigio quando doveva riprenderlo e , solitamente, prima di metterlo in punizione. Aveva poche reminiscenze della sua infanzia, se non i calzoni corti che gli scoprivano le ginocchia magre e glabre e il suo grammofono con cui ascoltava la musica più varia. Gli piaceva l’opera ma l’ascoltava di nascosto, perché papà Crapaud lo derideva in quanto l’opera, diceva canticchiando, era affare da donne e non da uomini.
La scala ad un tratto si interruppe su un specie di pianerottolo parimenti angusto che dava su due porte, entrambe chiuse, una a destra e una a sinistra. E ora? Si chiese quale delle due prendere? A destra a sinistra? Di istinto gli venne di prendere quella di destra, notò che uno spiraglio di luce fendeva l’ombra che lo avviluppava. Sembra sia leggermente aperta, pensò.

Afferrò la maniglia con spasmodica ansia ed un discreto entusiasmo, voleva uscire da quella che era una gabbia a tutti gli effetti. Afferrò avidamente la maniglia della porta destra con la mano sinistra. Non fece in tempo ad accorgersi che c’era una sostanza appiccicaticcia che gli incollò il palmo rapidamente.
“Dannazione” urlò spaventato “chi diavolo ha messo la colla sulla maniglia? È da pazzi fottuti!. La fronte gli si imperlò di sudore gelido, gli occhi si annebbiarono e la paura lo prese al petto. “Aiuto” gridò “qualcuno mi aiuti”, aprì la porta con la mano incollata e guardò oltre la soglia. “Non è possibile” esclamò.
Rivide la stanza polverosa, ripercorse con lo sguardo le pareti e, poggiate sulle stesse, i mobili archivio. Di fronte a lui, scritta in un rosso vivido e brillante la scritta “C.a.n”.
Era ritornato alla stanza dalla quale era partito. Grenouille lanciò un urlo e svenne, la mano sinistra incollata alla maniglia, il corpo afflosciato riverso sulla porta, come un pupazzo senza anima.
Anita P.