Per quanto imperfette siano le forme, esse hanno il potere di proteggere. Sono esse le nemiche giurate della tirannide popolare o di altra specie. (Benjamin Constant)

Del conflitto tra magistratura e politica ci portiamo dietro molti nodi irrisolti o mal risolti del giusto processo. Tra essi, anche quello relativo alla prescrizione dei reati. L’idea che la prescrizione oltraggi la funzione della pena e irrida a tutti coloro che si comportano correttamente non viene solo da quel conflitto. La dottrina penalistica ha ragionato a lungo sui due poli del valore della certezza della punibilità da un lato e della sua indeterminatezza temporale, dall’altro.
La veemenza con cui, negli ultimi anni, opinione pubblica e rappresentanti politici e della magistratura ritengono una ferita alla civiltà giuridica un istituto che, dai tempi del diritto romano, ne è stato invece baluardo, ha origini mediocri, come quella della polemica sulla legge ex Cirielli e sulla sua applicazione ad personam. Ridurre la riflessione sulla prescrizione alla solita chiacchiera tra buoni e cattivi non rende giustizia alla complessità dell’istituto. Soprattutto, non aiuta a focalizzare l’attenzione sulle vere esigenze di efficienza dell’amministrazione della giustizia. Il dato da cui partire non è, come dice il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo, che ci sono tante inchieste e poche sentenze perché c’è la prescrizione. Piuttosto, il dato da cui partire è perché i tempi dei procedimenti penali sono così spesso più lunghi dei termini di prescrizione e perché ci sono tante inchieste che si risolvono in nulla.
La prescrizione serve a garantire il cittadino dall’esercizio arbitrario e abusivo della forza da parte dello Stato. Il cittadino è piccolo e debole, se confrontato alla macchina statale. Senza efficaci garanzie che lo proteggano sarebbe preda di un arbitrio incontrollato. Una di queste garanzia è quella secondo cui un processo non può durare mezza vita. Se lo Stato riesce a finirlo in tempi umani bene, altrimenti il singolo va salvaguardato.
Gli avvocati difendono (anche) dei colpevoli, ma i Giudici giudicano (anche) degli innocenti
L’intervento riformatore della L. 9 gennaio 2019 n.3, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, ha stabilito che il corso della prescrizione è bloccato dopo la sentenza (di condanna o di assoluzione) di primo grado o il decreto penale di condanna e fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o di irrevocabilità del decreto penale di condanna. Resta ferma, al contempo, la pregressa disciplina della prescrizione fino alla sentenza di primo grado.
Appare evidente che il chiaro intento della riforma è quello di sopperire agli effetti della diffusa lentezza dei processi, che supera i sei anni indicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Alla luce di questa considerazione, il legislatore ha inteso ridurre il numero dei reati prescritti a causa della lentezza dei processi seguendo la strada radicale dell’introduzione di un ostacolo insuperabile: la sentenza di primo grado.
Nella direzione evocata, non può, innanzitutto, sfuggire come il legislatore abbia inteso intervenire su un momento di patologia del processo penale, la prescrizione del reato assorta a regola e non più evenienza eccezionale, agendo nel concreto mediante un ulteriore momento patologico, la dilatazione dei tempi del processo: in tale sistema, a fronte di un processo cronicamente lento, si è inteso sospendere – e perciò, necessariamente, ulteriormente dilatare – i suoi tempi al fine di consentire di addivenire all’accertamento nel merito, non curandosi – e probabilmente nemmeno lontanamente intuendo – il legislatore di come proprio la distanza temporale tra sentenza e fatto accertato possa compromettere la correttezza di tale accertamento, aumentare la distanza tra realtà effettuale e realtà processuale, mortificare le funzioni della pena e spostare finanche in avanti, rendendola potenzialmente ineseguibile, la concreta esecuzione della sanzione.
Mediante tale operazione, si è inteso irrazionalmente e distonicamente rispetto al sistema di garanzie costituzionali, curare la crisi di efficacia del processo, ossia la parziale incapacità di produrre giustizia accertando fatti e responsabilità penali attraverso decisioni definitive, aggravando la distanza dal canone costituzionale di ragionevole durata del processo, creando la figura dell’imputato necessario e inserendola nell’eterno processo.
L’eliminazione della prescrizione, criterio che guida concretamente la priorità nella fissazione delle udienze in appello e in Cassazione, rende evidente, da tale angolo visuale, in primo luogo il vulnus al principio costituzionale di ragionevole durata ex art. 111 comma 2, Cost.
Come può ritenersi assicurato all’eterno imputato il diritto di programmare la propria esistenza, paralizzandola per tutto il periodo di durata del procedimento penale e non consentendogli di andare avanti, anche nel senso di scontare la propria pena e intraprendere ogni futura, libera, scelta esistenziale, nella direzione che promana dall’art. 27 Cost.?
Dovremmo chiederci se i reati vanno in prescrizione non perché la prescrizione è troppo breve, ma perché il procedimento penale è troppo lungo. È uso, ad esempio, allungare la fase delle indagini, che dovrebbe avere tempi molto stretti e possibilità di proroga solo in via eccezionale. E le indagini sono lunghe anche perché sono tante. E sono tante anche perché la legge penale lascia sempre più discrezionalità nell’individuare le fattispecie di reato, mentre l’impunità della condotta dei magistrati e il feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale rendono, in definitiva, tutto perseguibile. In un ambiente culturale in cui i giudici, pm in testa, sono portati a sentirsi indipendenti da tutto tranne che dall’opinione pubblica, come si può pensare che l’inefficienza della giustizia si possa riparare riconoscendo al processo o a una parte di esso efficacia interruttiva della prescrizione, così da introdurre “nella giustizia pratica la più abominevole signoria dell’arbitrio”, come scrisse Francesco Carrara nel suo “Programma del corso di diritto criminale” del 1860?
Alla stregua delle considerazioni che precedono, è possibile rilevare come l’intervento di riforma appaia effettivamente prigioniero di finalità politiche tese a strutturare regole che si pongono come strumenti di “vendetta sociale” o di “sterminio giuridico”, come da subito rilevato da autorevole dottrina: l’intervento riformatore, cui è stato impresso uno stigma punitivo e nutrito di proclami diretti a punire senza se e senza ma, snatura la causa di estinzione del reato in oggetto, trascurando di considerare come l’eliminazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, lungi dal garantire le funzioni della pena, da ritenersi al contrario cessate o quantomeno affievolite con il passare del tempo, non garantisce la certezza e la effettività della sanzione, cui presiedono le regole processuali.
Ponendo il soggetto nella potenziale condizione di eterno imputato, in altri termini, non si garantisce il rispetto della certezza della sanzione né si perseguono effettivamente le finalità della stessa, optandosi di fatto per una strumentalizzazione della pena, in chiave essenzialmente propagandistica.
Spesso il reato è un singolo episodio nell’arco di un’intera vita. Capita non di rado che nell’attesa delle indagini e del processo i cosiddetti rei si costruiscano una vita, un’altra vita: che abbiano dei figli, che trovino un lavoro — se non lo avevano già — e via discorrendo. Poi, quando ci si era quasi dimenticati di tutto, arriva una condanna, in certi casi detentiva e definitiva. Così quell’individuo che per la società non rappresenta pericolo alcuno va incontro ad un percorso detentivo. Il percorso di vita che aveva tracciato si spezza. Che senso ha quella pena? Chi ne trae profitto?
Si interviene, in tal modo, con uno strumento improprio per recuperare l’efficacia del procedimento penale, al cui rispetto sono ordinariamente deputate le regole di tale procedimento. In tal guisa, si perviene al risultato di sovrapporre diritto penale sostanziale e processuale, alterando i complessivi equilibri della giustizia penale.
Ma vi è di più, in quanto, in un’ottica diametralmente opposta rispetto a quella proclamata dal legislatore, può, sotto altro profilo, evidenziarsi che la abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio possa, perfino e paradossalmente, annientare l’effettività della repressione penale: appare, in tal senso, come la pendenza del procedimento penale in appello e in cassazione per un lunghissimo periodo (che sarà concretamente determinata dalla riforma in commento), ritardi nei fatti il momento di esecuzione delle sentenze di condanna, in tal guisa eseguibili a distanza di moltissimi anni dalle sentenze e dai fatti da queste accertati.
In tale prospettiva, non può infatti trascurarsi come spostare in avanti o indietro il momento nel quale matura la prescrizione del reato abbia di fatto un impatto immediato sulla prassi, incidendo sui tempi del processo e sulle strategie dell’accusa e della difesa, indirizzando la scelta dei fatti di reato da perseguire prioritariamente e, soprattutto, incidendo sull’organizzazione giudiziaria nell’ordine di trattazione dei processi.
In altri termini, l’allungamento dei tempi del processo penale nel secondo e nel terzo grado di giudizio, cui nell’attuale sistema si andrà inevitabilmente incontro, determinerà inesorabilmente lo slittamento del momento di concreta inflizione della sanzione penale rispetto al fatto; all’eterno imputato che sarà giudicato colpevole sarà, in tal guisa, applicata la sanzione a distanza di moltissimi anni dal reato.
Ed è in tale ultima direzione che è possibile riunire e raccordare i differenti profili di illegittimità costituzionale innanzi richiamati: il blocco della prescrizione non è in grado di soddisfare le finalità della pena ed è in grado di fare avvertire come ingiusta la concreta inflizione anche di una pena giusta, perché eseguita a grande distanza di tempo, comprimendo le possibilità di sviluppo della persona e spazzando via l’idea personalistica della pena tratteggiata dall’art. 27 Cost.
Francesco Gargiulo, Presidente di Aiga Napoli