Chi è nato prima? L’uovo o la gallina? E chi è più veloce? La lepre o la tartaruga?…chissà, forse semplicemente è una questione di Tempo.
Voglio iniziare questo nuovo anno di incontri riflessivi mensili con dei notissimi paradossi che possono facilmente introdurre all’ambito tematico scelto: i ruoli, le funzioni e le identità sociali. Date queste premesse, voglio pertanto iniziare (come già indica il titolo) dal ruolo del figli@, il primo vertice, punto di vista, identità dal quale ognuno di Noi guarda il mondo in quanto elemento di una collettività umana.
Secondo vari dizionari, figli@ è la creatura umana rispetto a coloro che lo hanno generato. In molte culture e religioni, inoltre, tale “figura” tende molto spesso a rappresentare l’altra faccia del divino, il suo aspetto materialmente operante nella tridimensionalità a cui tutti noi ci sentiamo di appartenere… insomma, l’Altro da Sé del dio.

Rappresentazione di figli@ tra i genitori
Essere figli@ o Fare il figli@…questo è forse il nostro dilemma? In quanto esseri viventi siamo stati gettati nell’Essere (come diceva Heidegger), in un mare infinito di affettività ed in-affettività, ad agire in modo totalmente incomprensibile se prendiamo come punto di vista quello dei nostri sistemi percettivi, interiori ed esteriori, del nostro corpo. Ma quello che percepiamo coscientemente (non consapevolmente) con i nostri sensi, quello che ognuno di Noi È in quanto individuo, ci rende veramente umani? Un concentrato di sensazioni enterocettive ed esterocettive può dirsi umano? Secondo me, No!
Mi trovo spesso a dovermi confrontare con un pensiero comune che tende a fondere e, allo stesso tempo, confondere l’Essere con il Fare. Ritengo che tale confusione sia l’origine di molti dei nostri più comuni problemi rispetto al rapporto definitorio del nostro Sé e del nostro posto nella Società umana. Il pericolo, difatti, ci si pone chiaramente innanzi quando cerchiamo di “fare”, di comportarci, in un determinato modo (script relazionale) onde poter essere riconosciuti ed accettati dagli Altri, affinché questi ultimi possano darci un punto di partenza, un livello base, da cui partire nel viaggio alla scoperta del nostro Sé umano. In un certo senso, la base di cui sto parlando è infatti il ruolo del figli@. Ma quante volte, nella vita di ognuno di Noi, è capitato di aver fatto tutto quello che ci era stato richiesto, tutto quello che avremmo “dovuto” fare per “essere” riconosciuti e lodati ed invece il risultato è stato al di sotto delle nostre aspettative? Come mai, una volta aderito in modo collusivo all’immaginario Altrui (nel nostro caso, ai genitori come nostra controparte), riscontriamo che questi ultimi ci danno per scontati e ci trattano con indifferenza? Nel tempo siamo capaci di acquisire difese come quelle della razionalizzazione e della intellettualizzazione; esse ci permettono di “giustificare” tali atteggiamenti attraverso processi di identificazione con il ruolo altrui ed allora tutto diventa chiaro: erano preoccupati, a lavoro c’erano problemi, forse avevano litigato, qualcuno di più importante di me non si sentiva bene, e così via. Eppure, il senso di delusione, di frustrazione, di amarezza, resta lì e non passa ma, fin troppo spesso, si accantona, si sedimenta, si solidifica, fino a farci diventare più insensibili verso noi stessi e, col tempo, anche verso gli altri. Ebbene, proprio quelle sensazioni sgradevoli, così come i dolori ventrali nel neonato, ci permettono di non dimenticare chi siamo, ovvero esseri potenzialmente capaci di divergere dalla strada di appartenenza a cui sembriamo essere destinati fin dalla nascita. Questo pensiero mi riconnette direttamente a quanto raccontato dal 2011 nella trilogia di romanzi, di genere distopico, della scrittrice Veronica Roth. In tale opera la dimensione dell’appartenenza, dei ruoli, della comunità a cui si appartiene diviene fondamentale per continuare ad essere un elemento attivo e riconosciuto della società; una società appunto distopica, dove in primo piano emergono i rapporti dei protagonisti con le loro famiglie, in primis le madri (amorevoli, aggressive, lontane, sconosciute, etc.), nel loro ruolo di figli. La protagonista dei romanzi, dopo tante sofferenze e dolori personali, dopo decisioni contrarie agli insegnamenti familiari ed al “fare” per poter “essere” della propria fazione, accetta di essere una Divergente, ovvero un essere potenzialmente compatibile con tutti e, proprio per questo, equiparabile al nulla, come coloro che risultano essere incompatibili con le varie fazioni, degli scarti… insomma, diversi.

Nasciamo nella sofferenza della nostra diversità e ci affanniamo a chiedere una identità attraverso l’appartenenza fattuale a modelli che esistono prima di noi e che continueranno ad esistere funzionalmente anche dopo che noi saremo morti. Viviamo nella affannosa ricerca di un luogo, un ambiente, una società, una cultura, una famiglia a cui appartenere e siamo disposti a giocarci tutto, anche noi stessi, anche la nostra Unicità. È giusto tutto questo? Facciamo bene o ci facciamo del male? Questo non spetta a me dirlo né giudicarlo. Posso però ribadire qui un concetto: siamo quello che facciamo ma, allo stesso tempo, non necessariamente quello che facciamo può testimoniarci quello che veramente Siamo…per raggiungere la consapevolezza di ciò che veramente si È, a volte, ci basterebbe ascoltare la nostra frustrazione ed imparare che, ogni tanto, Divergere non è un Peccato.
Salvatore Rotondi