
In un sistema ad azione penale obbligatoria, non può ritenersi precluso al legislatore introdurre limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale intesi ad assicurare la ragionevole durata dei processi e l’efficienza del sistema punitivo. Pertanto, non può considerarsi irragionevole che, di fronte al soddisfacimento, comunque sia, della pretesa punitiva, lo Stato decida di rinunciare a un controllo di merito sul quantum della sanzione irrogata (Corte Costituzionale, sentenza n. 34/2020, depositata il 26.2.2020).
La pronuncia trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 c,.p.p., come sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 11/2018, nella parte in cui prevede che il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna “solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato”.
Il rimettente denuncia, altresì, la violazione dell’art. 97 Cost., rilevando come la limitazione del potere di impugnazione del p.m. non raggiunga l’obiettivo di rendere più efficiente l’amministrazione della giustizia tramite la riduzione del numero degli appelli, dato che le impugnazioni proposte dal PM rappresentano solo una minima percentuale del totale.
La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del PM e quelli dell’imputato, potendo una disparità di trattamento risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia (Corte Cost., n. 320/2007, n. 26/2007 e n. 298/2008).
Il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali. Le differenze che connotano le rispettive posizioni, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali le parti stesse sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale) – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria – tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia, tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) – sono, invece, compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che esse, da un lato, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del PM, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale; e, dall’altro lato, risultino comunque contenute entro i limiti della ragionevolezza (Corte Cost., n. 26/2007).
Con particolare riguardo alla disciplina delle impugnazioni, sulla premessa che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale (cfr., per tutte, Corte Cost., n. 274/2009), la pronuncia in commento sottolinea che il potere di impugnazione della sentenza di primo grado da parte del p.m. presenta margini di “cedevolezza” più ampi rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato (Corte Cost., n. 26/2007). Il potere di impugnazione della parte pubblica, infatti, non può essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost. (Corte Cost., n. 183/2017); di contro, il potere di impugnazione dell’imputato si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni di segno inverso (Corte Cost., n. 274/2009).
Con la sentenza n. 26 del 2007, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la regola “generale”, introdotta dalla legge n. 46/2006, dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento – fatta eccezione per il caso, del tutto marginale, in cui sopravvengano o si scoprano nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado – avendo la novella legislativa prodotto una dissimmetria “radicale” e “generalizzata” tra le parti processuali: il p.m., infatti, veniva privato del potere di proporre doglianze di merito contro le decisioni che disattendessero totalmente la pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa.
Il giudice delle leggi ha ritenuto, invece, compatibili con il principio di parità delle parti due innovazioni “collaterali” pure introdotte dalla citata legge n. 46/2006: l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento del giudice di pace, la quale investe solo una circoscritta fascia di reati di ridotta gravità e si innesta su un modulo processuale improntato a snellezza e rapidità (Corte Cost., n. 298/2008), e l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere emesse a conclusione dell’udienza preliminare, posto che anche l’epilogo ad esse alternativo (ossia il rinvio a giudizio) non è impugnabile da alcuno e il PM fruisce, a certe condizioni, della possibilità di chiedere in ogni tempo la revoca delle sentenze stesse (Corte Cost., n. 242/2009).
Come emerge dai lavori preparatori, obiettivo fondamentale della riforma introdotta dal d.lgs. n. 11/2018 è la deflazione e la semplificazione dei processi, nell’ottica di garantirne la ragionevole durata. In tale prospettiva, una specifica attenzione viene dedicata al giudizio di appello, il quale – per l’elevato carico di lavoro delle corti d’appello e la sua lunghezza – è da tempo additato come uno dei segmenti processuali più critici, sul piano dell’efficienza della giustizia penale.
Tra le misure intese a realizzare l’obiettivo vi è anche quella che dà origine all’odierno incidente di costituzionalità, ossia la riduzione dell’area oggettiva di fruibilità del gravame. Il novellato art. 593 c.p.p. tiene fermo il potere di appello del PM contro le sentenze di proscioglimento, introducendo, però, un inedito limite all’appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna: il gravame è ammesso solo quando tali sentenze modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
Indubbiamente, tale previsione genera una dissimmetria tra le parti, sottraendo al pubblico ministero il potere di formulare censure di merito in rapporto a tutta una serie di profili attinenti alla determinazione del trattamento sanzionatorio (la quantificazione della pena entro la cornice edittale, l’esclusione di aggravanti comuni o concessione di attenuanti, il bilanciamento tra circostanze, l’applicazione dell’istituto della continuazione, la concessione di benefici, ecc.).
Ad avviso della Consulta, si tratta, tuttavia, di una dissimmetria che – alla luce dei principi affermati dalla richiamata giurisprudenza costituzionale – non deborda dall’alveo della compatibilità con il principio di parità delle parti: la limitazione del potere di appello della parte pubblica persegue, infatti, l’obiettivo – di rilievo costituzionale (art. 111, comma 2, Cost.) – di assicurare la ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d’appello, risultando contenuta e non sproporzionata rispetto a tale scopo. Le questioni di legittimità costituzionale risultano, pertanto, non fondate.
Alessandro Gargiulo