La Corte Costituzionale della preclusione dei domiciliari per i reati più gravi


Il soggetto interessato dalla preclusione della detenzione domiciliare per la particolare gravità dei reati commessi non è solo l’autore di un determinato reato ma, in ciascun caso concreto, è persona dalla pericolosità non contenibile attraverso i presìdi tipici (Corte Costituzionale, sentenza n. 50/2020, depositata il 13.3.2020).

La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis, della legge n. 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, prevedendo la detenzione domiciliare per l’espiazione della pena non superiore a due anni, anche se costituente residuo di maggior pena, quando non ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare risulti comunque idonea a scongiurare il pericolo di commissione di altri reati, esclude l’applicabilità della stessa misura in caso di condanna per i reati di cui all’art. 4-bis ord.pen..

Secondo la Cassazione Penale, in veste di giudice a quo, la disposizione censurata sarebbe fondata sulla presunzione assoluta di inidoneità della detenzione domiciliare quale strumento per il trattamento del condannato e la prevenzione di nuovi reati, presunzione a sua volta collegata a una valutazione di marcata pericolosità del soggetto che abbia commesso uno dei reati elencati nel citato art. 4-bis ord.pen..
Pertanto, la disciplina impugnata contrasterebbe con l’art. 3, comma 1, Cost. in quanto irragionevole, sia perché fondata su una presunzione arbitraria, suscettibile di agevole smentita, sia perché espressiva di una preclusione non superabile neppure alla luce delle condizioni che, invece, consentono l’accesso ad ulteriori benefici proprio per i reati elencati nell’art. 4-bis ord.pen. (tra i quali, l’affidamento in prova al servizio sociale).
Ad avviso del rimettente, la disciplina in questione contrasterebbe, inoltre, con la funzione rieducativa della pena, da cui discenderebbero i principi di personalizzazione, gradualità e proporzionalità nell’esecuzione delle sanzioni detentive (art. 27, commi 1 e 3, Cost.).

I dubbi di compatibilità costituzionale sollevati dalla Corte di Cassazione muovono dall’assunto che la disposizione censurata conterrebbe una presunzione assoluta di pericolosità. Questo primo argomento, tuttavia, ad avviso della Consulta, non coglie nel segno. La preclusione indicata dal rimettente si fonda, infatti, su una logica presuntiva (quella che tipicamente utilizza il titolo del reato commesso quale misuratore in astratto della pericolosità del condannato), ma trova fondamento concomitante in elementi che discendono dalla necessaria valutazione giudiziale del caso concreto: il soggetto che subisce la preclusione di accedere alla detenzione domiciliare non è individuato su base presuntiva assoluta, solo in ragione del titolo del reato commesso.
In particolare, il soggetto cui l’accesso alla detenzione domiciliare è impedita non si trova neppure nelle condizioni utili per essere affidato in prova ai servizi sociali ai sensi dell’art. 47 ord.pen.. Una situazione, quest’ultima, che non dipende dall’entità delle soglie di pena, ma consegue necessariamente alla valutazione giudiziale, effettuata in concreto, che ha concluso per l’impossibilità di contenere il rischio della commissione di nuovi reati, anche ricorrendo alle puntuali e tipiche prescrizioni della misura dell’affidamento.
In definitiva, il soggetto interessato dalla preclusione censurata non è solo l’autore di un determinato reato ma, in ciascun caso concreto, è persona dalla pericolosità non contenibile attraverso i presìdi tipici della misura di cui all’art. 47 ord.pen..

L’ulteriore assunto del rimettente secondo cui la detenzione domiciliare dovrebbe essere applicabile con maggiore larghezza rispetto all’affidamento in prova – poiché presenterebbe un effetto di restrizione più intenso della misura non detentiva e potrebbe, quindi, fronteggiare situazioni di pericolosità più marcata – ad avviso del giudice delle leggi, non è condivisibile. Ed infatti, tra le varie misure previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario e dal codice penale non può essere costruita una sorta di graduatoria, che le classifichi secondo una scala ascendente di severità, muovendo da quelle che presenterebbero minore analogia con la reclusione intramuraria, fino a quelle che con quest’ultima dovrebbero in tesi esibire più forti analogie. In realtà, le misure in questione mirano al contenimento del rischio di recidiva anche, ed anzi soprattutto, mediante una progressione del percorso trattamentale finalizzato alla risocializzazione del condannato e, quindi, al suo reinserimento nella società. In altre parole, non ha fondamento la pretesa di riscontrare corrispondenza assoluta tra livello di pericolosità del condannato stesso e maggiore o minore “somiglianza” delle singole misure al contenimento estremo, assicurato dalla detenzione in carcere.
A differenza della detenzione domiciliare, la misura dell’affidamento, grazie alla duttilità consentita dalla relativa disciplina, può efficacemente fronteggiare la pericolosità segnalata dalla qualità del reato commesso, anche quando si tratti di fattispecie compresa negli elenchi dell’art. 4-bis ord.pen.. Pertanto, se, come avviene nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, può stimarsi che neppure prescrizioni particolarmente severe varrebbero a conseguire risocializzazione e prevenzione, se ne può concludere che la preclusione dell’accesso ad una misura ancora meno articolabile, come la detenzione domiciliare, non presenta connotati di irragionevolezza e non viola il principio di finalizzazione rieducativa della pena.
La questione di legittimità costituzionale, pertanto, viene dichiarata non fondata.

Alessandro Gargiulo

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