
Continuano le “coraggiose” pronunce della magistratura di sorveglianza milanese che utilizzando gli strumenti a disposizione (v. ordinamento penitenziario) e per supplire alle insufficienti misure svuota-carceri dettate al momento dal d.l. 18/2020, intende scongiurare il pericolo bomba sanitaria rappresentata in questa fase emergenziale dalle carceri. L’istituto utilizzato è quello del rinvio facoltativo della pena, in presenza di condizioni di grave infermità fisica, nelle forme della detenzione domiciliare c.d. in deroga (o umanitaria).
Il Tribunale di sorveglianza di Milano ribalta la decisione di rigetto di applicazione provvisoria delle misure nei confronti di un detenuto nel carcere di Voghera che, sia pure condannato per gravi reati (tutti ostativi ex art. 4-bis ord. pen.), ha un fine pena alla fine di quest’anno. E lo fa con un’ordinanza del 31 marzo 2020, dopo appena 11 giorni dalla pronuncia in prima battuta dell’ufficio di sorveglianza di Pavia. Ciò in quanto, come più volte sottolineato dal Presidente del Tribunale di sorveglianza meneghino, «non è possibile fronteggiare l’emergenza così drammaticamente insorta: il virus corre più veloce di qualunque decisione che, alle condizioni date, è certo perverrebbe fuori tempo massimo» (segnalazione congiunta, inviata il 15 marzo al Ministro della giustizia, dai presidenti dei Tribunali di sorveglianza di Brescia e Milano).
Il Magistrato di sorveglianza di Pavia, il 20 marzo scorso, ha rigettato la richiesta di differimento della pena e applicazione provvisoria di qualunque forma di detenzione domiciliare (che con riferimento a quella ordinaria, è stata dichiarata inammissibile in virtù dello sbarramento dell’art. 47-ter, comma 1-bis che preclude l’accesso alla detenzione domiciliare ai condannati per delitti 4-bis: tale norma di recente è stata considerata dalla Consulta, nella sentenza n. 50/2020, non in contrasto con la Costituzione; mentre tale condizione ostativa non persiste per la detenzione domiciliare umanitaria) in quanto il quadro clinico del detenuto, affetto da plurime patologie croniche non è stato ritenuto incompatibile con il regime detentivo e non è stato prospettato dall’istante alcun suo aggravamento.
Il giudice di sorveglianza di Pavia esaminava anche il pericolo rispetto al possibile contagio da COVID-19 (in ragione delle delicate condizioni di salute del detenuto) affermando però che questo «non costituisce elemento di incompatibilità con la detenzione carceraria non essendovi indicazioni in merito a frequenza di contagio da COVID-19 maggiore in carcere rispetto che all’ambiente esterno». Rigettava quindi la richiesta del detenuto in quanto non riteneva presente un grave pregiudizio derivante dalla protrazione della detenzione (presupposto necessario per poter applicare la misura in via provvisoria) e trasmetteva immediatamente gli atti al Tribunale di sorveglianza perché procedesse ad esaminare la richiesta nelle forme ordinarie, spogliate dall’urgenza del suindicato pregiudizio.
Dopodichè l’organo collegiale della magistratura di sorveglianza milanese ha fissato immediatamente l’udienza. Nel merito ha ribaltato la decisione dell’Ufficio di sorveglianza rilevando che «non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluripatologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete» rilevando che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio e ritenuto dunque che «tali patologie possano considerarsi gravi, ai sensi dell’art. 147 c.1 n.2) c.p., con specifico riguardo al correlato rischio di contagio attualmente in corso per COVID 19, che appare – contrariamente a quanto ritenuto dal MdS – più elevato in ambiente carcerario, che non consente l’isolamento preventivo».
Scompare, quindi, il riferimento alla situazione di incompatibilità delle condizioni di salute con lo stato detentivo in quanto proprio l’elemento ulteriore dell’emergenza coronavirus comporta la situazione di grave infermità fisica richiesta dall’art. 147 c.p., n. 2, per disporre il differimento della pena. Ciò sia in quanto la stessa giurisprudenza di Cassazione riconosce che in presenza di uno stato morboso o scadimento fisico che possa determinare un’esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana, da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria – dovendo contemplarsi l’esigenza di non ledere il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (Sez. I, n. 39797/2019) – si ha lo sconfinamento verso una pena disumana e degradante.
Interessante anche il passaggio per il quale il rischio di contagio per COVID-19 è più elevato all’interno del carcere rispetto alle mura del domicilio e possa portare ad un aggravamento delle condizioni di salute del detenuto. Anche qui è illuminante la Suprema Corte, laddove ci ricorda che il giudice chiamato a decidere sul differimento dell’esecuzione della pena o, in subordine, sull’applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest’ultimo «valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico» (Sez. I, n. 37062/2018).
La gravità dei reati ascritti al condannato – prosegue il Tribunale di sorveglianza di Milano – suggeriscono che il differimento avvenga nelle forme della detenzione domiciliare umanitaria in quanto tale misura è sufficientemente contenitiva e idonea a scongiurare il pericolo di recidiva.
I giudici procedono «ad un esame approfondito della personalità del condannato e della sua effettiva e perdurante pericolosità sociale» (Sez. I, 29/2015) in quanto non si fermano ai gravi reati per cui il richiedente sta scontando la pena (associazione di tipo mafioso, usura, estorsione); circostanza che avrebbe portato alla conferma del rigetto della detenzione domiciliare in deroga. Ritengono invece scemata la pericolosità sociale, tenendo conto della lunga detenzione, dal fine pena vicino, e dall’applicazione della misura di sicurezza “non detentiva” (libertà vigilata per la durata di tre anni).
Il Tribunale milanese compie un condivisibile bilanciamento di interessi tra il diritto alla salute del detenuto (messo ancora più a rischio dell’emergenza coronavirus) e le esigenze di tutela della collettività. Pure su tale punto la pronuncia è rispettosa degli insegnamenti di Cassazione sulla necessità di motivare sulla possibilità della detenzione domiciliare, viste le patologie, di frenare tale pericolosità (Sez. I, n. 18938/2013).
Alessandro Gargiulo