Il processo da remoto e il destino del difensore


di Raffaele Esposito

Il difensore è in bilico tra due pericoli mortali: quello del virus, stricto sensu,  una sorta di allergia della natura, senza storia, e, con un nome acquisito di recente (Covid 19), e quello del virus prodotto dall’uomo (governante) e desiderato da tempo immemorabile dal giudice: il processo da remoto che stravolge funditus la struttura ontologica del processo. Il virus, propriamente detto, ha colto di sorpresa il sapere medico mandandolo a una deriva senza riva; ha disorientato la politica che troppo a lungo ha tirato a indovinare senza progettualità e progetto. Ma la scienza medica, attraverso la cooperazione, la permutazione, e, la trasversalità dei saperi, anche a livello internazionale, scoprirà un vaccino, o quanto meno medio tempore, una terapia farmacologica che ne arresti gli effetti più devastanti.
Il virus della giustizia penale, invece, non conosce né vaccino, né cure.

Esso viene da lontano ed è connotato da mutazioni genetiche sempre in peius nei confronti del difensore. Non si può sottacere una microanalisi di contesto che ha un dies ad quem: il processo da remoto. Ormai da molti anni prassi giudiziarie  disapplicative  hanno squalificato, invalidato, il difensore.
L’avvocatura coniò, in preda alla disperazione, immagini, metafore, per descrivere la sua emarginazione dal processo penale.
Parlò di archiviazione del difensore, di espropriazione del difensore, della sua erranza.
Ma la logica del rifiuto del difensore da una parte della giurisdizione è oggi autoptica in senso semantico.
Il difensore attento è stato considerato progressivamente scomodo; poi una turbativa per il processo; poi il suo nemico; poi il soggetto da espropriare; dulcis in fundo: il soggetto gettato fuori del processo.
L’articolo 111 della Costituzione è stato il sogno dell’avvocatura.
Il difensore, in un delirio dell’immaginazione, era convinto, a seguito della costituzionalizzazione del giusto processo, di essersi riappropriato del suo ruolo di garante del diritto, della giurisdizione, di essere l’ultimo baluardo della libertà dell’avvocatura.

Poi l’amara realtà: un potere giudiziario che abusa di sé; un libero convincimento che diventa sovranità, a volte anarchia, immotivata decisione; abuso di discrezionalità; stili comportamentali incompatibili con la  terzietà del giudice; controesame del difensore che è rapporto tra predatore e preda; domande inammissibili accompagnate da giudizi poco edificanti nei confronti del difensore che a volte si vede contestato disturbi grammaticali, nominali, semantici; abusi  dei concetti di pertinenza e di rilevanza nell’articolazione delle domande di controesame; disappunti somatici grafici; transfert simpatetici tra giudice e pubblico ministero.
Il più delle volte la difesa ha prodotto numerosi verbali dibattimentali, sedimentati aliunde, come controdiscorso probatorio all’assunto accusatorio del collaborante, completamente ignorati in sentenza.
È facile osservare che vi è il rimedio dell’impugnazione, quando il giudizio di appello è un’avventura ai limiti dell’umano.
Solo il vissuto percettivo diretto del difensore in aula segna la latitudine della sua sofferenza che non la si può sopportare oltre.
Presso il Tribunale di Napoli Nord, in un processo per reati associativi, viene emanato un decreto dalla Presidenza con il quale, sotto il timore infondato della scadenza dei termini di custodia cautelare, si fissano udienze plurime infrasettimanali con la collaborazione  patriottante  di altri uffici giudiziari dal quale  emerge de plano la visione del processo eccezionale da decidersi con una rapidità inquietante.
Il decreto de quo, in tutto il suo iter argomentativo, ignora il difensore non già a partire dai suoi impedimenti, ma dal suo status di soggetto grammaticale .
Decreto poi revocato grazie agli interventi operativi e fecondi del Consiglio dell’Ordine di Napoli Nord e della sua Camera Penale.
Mi sovviene il verso del grande poeta:  E.Jabès: “Il mio posto è sulla soglia”. 
E mentre il difensore avverte giorno per giorno, in aula, il senso della sua perdita, sull’altro versante: il giudice Piercamillo Davigo, con una corporatura esile, piccola, da rovinare l’immaginazione, “un ricordo della vita”, direbbe Nietzsche, si gonfia il petto e, con un gesto fondatore, si improvvisa Golia e si dichiara, coram populo, nemico del difensore con uno zibaldone di enunciati di polizia; e viene a Napoli a confrontarsi con gli avvocati con schizoanalisi, con una storia della chiacchiera che Heidegger chiama “lo sbadiglio del vuoto”.

L’Avv. Raffaele Esposito del Foro di Napoli

Quando l’avvocatura era ancora l’Avvocatura e i grandi Maestri erano, in aula, fondatori di nuove discorsività, i soli che illuminavano tutti noi, quanti esempi di mortalità  il  dottor Davigo avrebbe dovuto compiere; quante volte avrebbe dovuto comprendere che il silenzio era tutta la sua eloquenza.
Il processo da remoto è il figlio degenere del processo in videoconferenza per gli imputati gravati dal 41 bis O.p. quando una voce dal sapore dolciastro della perversità, “l’emergenza”, si impiantò sulla scena giudiziaria come formula d’alibi, ultima a morire, in nome della quale sono stati catturati, nel processo Tortora, numerosi cittadini per omonimia; sofferenze e morte dovette attraversare Tortora, innocente a livello molecolare.
Illo tempore il socialmente pericoloso, così come era stato tematizzato per la prima volta da A. Prins (Défense sociale 1910), sotto l’influenza del Contratto sociale di Rousseau, come c’insegna Foucault, sedusse persino la nostra Corte costituzionale che, nel 1999, dichiarò costituzionale il nuovo articolo 146 bis dispos. att. Del Codice di procedura penale.
Da allora è incominciata a serpeggiare nelle aule di giustizia non più la prova con i suoi riscontri, ma visioni ideologiche del diritto penale dell’imputato come nemico sociale (il diritto penale del nemico, problematizzato da G. Jacobs; il diritto penale del socialmente pericoloso, oggetto di preoccupazione criminologica del Prins; il diritto penale del rischio, studiato R. Castel; il diritto penale armato del quale si è occupato Foucault) così scomparendo sempre di più il diritto penale del fatto.
Il resto lo ha fatto il virus sotto le spoglie dell’emergenza.
Il governo, costituito da un trust di ingegni che potrebbero spianare i nuovi orizzonti del determinismo lombrosiano e della fisiognomica, ricorre al processo da remoto, così realizzando il godimento di una buona parte della magistratura.
Nasce così il processo telematico rectius il processo dopo Babele.
Il difensore, già agli arresti domiciliari per il virus, libero di stare anche in mutande, impazzisce davanti al computer con una comunicazione babelica: io non so se riuscirò a vedere il giudice, il pm; non so dove sta il mio codifensore; cosa pensa del mio operato; non so come si realizza lo scambio virtuale con le parti; la sua comunicazione partecipativa; dovrei interrogare gli astri e la cabbala per divinare la pratica gestuale della comunicazione non verbale.

Il difensore, gravato dagli anni, e, che non ha dimestichezza con il computer, deve scegliere tra pazzia e suicidio.
Fino a quando ci vuole pazienza con la pazienza?
Ho diritto ad un processo ordinario, normale, alla mia aula di udienza che è lo spazio fisico della mia possibilità reale, effettiva, di essere difensore.
Nell’aula di giustizia, che è la mia patria, posso, con la presenza dell’imputato, realizzare il contradittorio nella sua concretezza; contradittorio che è il cuore del processo ex art.111 della Costituzione e ex. art.6 CEDU.
Senza dire che già in aula, in pieno controllo delle parti, il contradittorio rischia di essere ipertrofico, e il dibattimento corre il pericolo di ridursi ad uno sterile torneo oratorio.
Con il processo da remoto il contradittorio è un’utopia intransitabile.
Ho bisogno di guardare in faccia le parti in pieno contradittorio; ma anche di vigilare su quelle pratiche gestuali, fatte del non detto, di tic, di guizzi non voluti; sulla possibile insofferenza somatica e grafica di una delle parti; devo sottoporre a libertà vigilata i volti delle parti che, nel loro silenzio, dicono già molto, secondo i canoni della psicologia della testimonianza e delle scienze cognitive.

Se devo produrre documentazione, cosa dovrò fare davanti al computer? 
E se si deve procedere a un procedimento incidentale per verificare se effettivamente il teste è stato minacciato, cosa farò davanti al computer? E se si deve procedere ad un confronto?
Il processo telematico è un’infedeltà essenziale ai principi del giusto processo.
Come è stato possibile che l’Avvocatura, una volta così gloriosa, si sia poi sempre più innamorata dei suoi abissi, dei suoi precipizi?
Quanti silenzi, quante omissioni, quante complicità, sia pure in buona fede, quante arrendevolezze!
Nessuno, dico nessuno degli avvocati, esce indenne da responsabilità, e, in primis sono responsabile io con tutto me stesso, anche se conosco solo le mie valli.
È venuto il momento di assumerci le nostre responsabilità.
Dobbiamo parlarci per unirci; per agire; le nostre analisi debbono tradursi in un agire reale.
Bisogna supportare ognuno con le proprie specificità e potenzialità, gli avvocati che hanno replicato a questo capitolo inedito di anomalia processuale.
L’Avvocatura si è fatta promotrice dell’iniziativa di un flash mob indetto per il 05 maggio; iniziativa molto importante.
Ma questa deve essere solo l’avvio; il preludio dell’agire reale che deve avere come a priori progettualità e progetto.

Abbiamo bisogno di angeli e cioè dei giovani.
Dobbiamo essere compatti, uniti laddove è possibile l’unità; aperti alle alleanze per una finalità comune.
Lo so! La lotta è impari, ma non tentare è ancora più triste.
Ci guardano i giovani e i nostri figli che hanno scelto di essere avvocati nel giorno dell’inferno.

Raffaele Esposito

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