di Salvatore Rotondi
Ebbene sì, in questo mese si parlerà di una delle figure/ruolo fondamentali delle nostre amate società umane: i nonni!

Molti dei lettori di questa rubrica avranno ricordi particolari (dolci, amari, agrodolci) del rapporto con i propri nonni. Qualcuno, forse, non ne avrà di ricordi diretti per la mancanza di contatto, di conoscenza o, addirittura, per la dipartita degli stessi da questo mondo. A volte, l’eccessiva presenza o l’assenza dei nonni può arrivare a produrre nell’individuo delle vere e proprie ferite psicologiche insanabili perché nascoste o cicatrici capaci di indirizzare, in modo stabile, le scelte relazionali di una vita.
Se pensiamo all’origine etimologica del termine, scopriamo che esso deriva (secondo l’enciclopedia Treccani) dal tardo latino nonnus, ovvero “monac@, bali@”. Pertanto, considerando la funzione a cui sono demandati nella nostra società (specialmente in questo periodo storico), i nonni sembrano incarnare perfettamente l’etimologia del loro nome. Sembra quasi che il Senso del loro esistere abbia un rafforzativo attivo, agito, superiore se non primario rispetto a quello degli stessi genitori. D’altronde, i nonni rappresentano il contatto diretto con le origini, la memoria della famiglia, le radici su cui poggia l’albero dell’avvenire di ogni individuo. Diviene così evidente quanto fondamentale sia, per la costruzione della psiche individuale e il senso di identità/appartenenza, la conoscenza dei nonni. Conoscenza affettiva che, con il tempo, si fa cognitiva, stratificazioni di esperienze, episodi, racconti, narrazioni di famiglia, che ci ricontattano transgenerazionalmente al corredo genetico a cui apparteniamo, ai non detti ed ai compiti esistenziali tramandati, nei non-detti, da generazione a generazione. Figuriamoci se poi si ha la fortuna di avere a che fare con i bis-nonni, ovvero i nonni dei propri genitori: quasi un tuffo nel sogno dentro al sogno di un altro sogno, tanto esaltato nel film Inception (C. Nolan, 2010).
Si può quindi sostenere che la stessa prima identità sociale di qualunque cucciolo di uomo venga a definirsi non dai primi contatti sociali esterni alla famiglia di origine ma dai primi contatti interni alla stessa famiglia. Il valore emotivo ed affettivo di tali contatti, poi, può arrivare a determinare in modo forte l’indirizzo positivo o negativo della stima di sé dello stesso individuo in formazione. Pensiamoci: un padre non ha un buon rapporto con suo padre (incomprensioni, eventi con conseguenze negative ed inaspettate, separazioni, mancanza di rispetto, dipendenze varie, etc.) ed a suo figlio (come è usanza in molti paesi del Mediterraneo) si decide di dare il nome del nonno di cui sopra. Che rapporto avrà il nipote con suo nonno omonimo? Da quali basi partirà questo rapporto? Di certo non le migliori…a meno che il nonno stesso non abbia fatto tesoro dell’esperienza di padre ed abbia elaborato (da solo o con l’aiuto di un professionista) le proprie vicissitudini genitoriali e, soprattutto, di figlio. Potremmo quasi avanzare l’ipotesi che diventare nonno sia la seconda occasione, per una persona, di essere un genitore sufficientemente buono (parafrasando D. Winnicott).

Forse è anche alla base di queste riflessioni che, nel 2018, fu accolto il neologismo “nonnitudine”, ovvero la condizione tipica di chi è nonno, anche in relazione al particolare legame affettivo che si instaura tra i nonni ed i nipoti; legame che coinvolge, e non senza conflitti e gelosie, gli stessi genitori dei bambini. A volte sembra quasi che l’insistenza e il desiderio di presenza nella vita dei nipoti, da parte dei nonni, esprima il desiderio di “infantilizzare” (a volte riuscendoci) gli stessi neo-genitori che, in tali circostanze, si trovano a rivivere un senso di impotenza o di incapacità propria dell’epoca in cui erano ragazzini. Non dobbiamo dimenticare che, nelle zone dei paesi sviluppati con qualità della vita alta, i nonni risultano essere o molto giovani di età o, addirittura, con una condizione fisica tale da esprimere il loro desiderio di non essere etichettati come “vecchi” (aspetto che ha accompagnato la rappresentazione psichica della figura del nonno, almeno nei due ultimi secoli, grazie anche all’aumento dell’aspettativa di vita). Insomma: nonni che, finalmente, scoprono l’adultità (ovvero la capacità di rispondere responsabilmente alle conseguenze delle proprie scelte) e genitori che non riescono a fare esperienza della imprevedibilità dell’esperienza genitoriale, restando adolescenti se non addirittura regredendo in una posizione infantile dove sono i nonni che si occupano di tutto.
È qui possibile intuire come basare la prima linea del welfare sociale sulle capacità pensionistiche e/o lavorative dei nonni non risulta essere la migliore strategia di crescita e responsabilizzazione civica in una società che vuole cittadini consapevoli e capaci di una partecipazione attiva alla vita comunitaria…o, chissà, forse si vuole proprio in contrario. Ai posteri l’ardua sentenza.
Ora, tutto quello che abbiamo detto fino ad ora, moltiplicatelo per due (le famiglie di origine dei singoli genitori) e avrete il quadro generale caotico in cui si trovano a crescere, strutturare le proprie identità individuali, i futuri rappresentanti del genere umano.
Troppo spesso ci si è limitati a guardare attualmente, come politiche sociali, alla famiglia nucleare come entità composta da genitori e figli. Oppure alla comunità educante ampliando gli orizzonti includendo educatori, insegnanti, scuola, religione, associazionismo. Ebbene, è giunto il momento di analizzare, responsabilizzare e coinvolgere il ruolo/figura/funzione dei nonni in questo quadro complesso degli insiemi sistemici umani. Mettere in figura quello che troppo spesso è stato dato per scontato, sullo sfondo, come qualcosa addirittura di fastidioso. D’altronde non è un caso che lo studio della memoria, della storia, dell’arte, dell’educazione civica, dei costumi, etc. trovino sempre meno spazio. Leggere un libro con i propri nipoti, a volte, può arrivare a creare un ponte cognitivo-affettivo capace di determinare il futuro psichico dei nostri ragazzi e, chissà, del mondo intero.

In questi ultimi mesi quanti nonni sono andati via, quanti nipoti non li conosceranno mai, quanti invece hanno vissuto la separazione e il trauma di vederseli strappati via, non solo da un virus ma dalla stessa società che non li considera altro che fastidiosi portatori di memorie vecchie, analogiche, incapaci di stare “al passo con i tempi”, con l’accumulo di Big Data utili a far funzionare l’immateriale del web e poi non più necessari perché privi di senso qualitativo. Quanto senso di abbandono vissuto nell’impossibilità anche di un ultimo saluto (religioso o meno che sia)…è in queste occasioni che una comunità, una nazione, rischia di perdere sé stessa e di non poter più progettare il proprio futuro, senza memoria (positiva o negativa che sia) del proprio passato.

I nonni hanno “una data di scadenza” stampata sulla faccia (sì, anche quelli che nascondono le proprie rughe attraverso tutti i ritrovati della moderna chirurgia estetica), non dimentichiamolo mai. Ci è stato chiesto di tenerci a distanza per preservarli: comprensibile. Io, personalmente, come psicologo vi chiedo di Ascoltarli e sentire cosa desiderano…perché, nel bene come nel male, quando li guardiamo negli occhi possiamo scorgere il nostro futuro e, così facendo, portando rispetto per il loro passato (i loro successi e, soprattutto, i loro errori) potremo forse incamminarci sulla strada di un futuro migliore pe ognuno di noi.
Salvatore Rotondi