di Salvatore Rotondi
Gli amici sono parenti che vi scegliete da soli.
(Eustache Deschamps)

Amici e conoscenti

L’origine del termine “amico” può essere ricondotto direttamente al latino amicus, il quale ha in sé la stessa radice etimologica del termine amare e, pertanto, non è sbagliato affermare che indichi letteralmente “colui che si ama”.
L’amore amicale è difatti quello che, secondo la cultura classica, può associarsi a φιλία (philia), ovvero un sentimento fraterno, totalmente disinteressato, una vera e propria affinità edificante perpetuamente il rapporto stesso, arricchendolo e facendolo crescere.
A differenza di ciò che si è descritto, il temine “conoscente” fa direttamente riferimento ad un soggetto, una persona con cui, pur non essendo amici, si ha una certa familiarità, ovvero di cui possediamo un certo sapere che fa, dello stesso conoscente, un oggetto conoscibile, quindi non spaventoso o alieno a noi stessi.

Possiamo notare subito una emblematica differenza tra amico e conoscente. Il primo attira il nostro sentimento, richiama ad un legame di amore evolutivo e desideroso di crescere. Una vera e propria volontà di diventare, insieme ad esso, qualcosa di più di quello che siamo. Una specie di flusso evolutivo che ci spinge, senza desideri puntuali e prettamente personali, ad andare al di là di noi stessi, per scorgere nell’altro quello che ancora non abbiamo compreso su di noi. Il secondo termine, invece, si lega letteralmente al nostro desiderio cognitivo di presa di possesso e ritenzione di tutto ciò che ci circonda; una specie di controllo su noi stessi e di stabilizzazione statica di quello che è, onde preservarci dalle continue oscillazioni e stravolgimenti della nostra vita quotidiana. Conoscere profondamente l’altro da sé diviene così uno dei sistemi più sicuri per evitare dolori dell’animo, fregature o addirittura fratture nella nostra spessa psiche.
Rileviamo come un termine tenda a valorizzare gli aspetti di fiducia e speranza in sé e nell’Altro verso un futuro carico di crescita ed espressione del proprio potenziale, mentre l’altro termine si focalizza su quello che possiamo comprendere sull’Altro per preservare noi stessi e quello che abbiamo fino ad ora acquisito. Paradossalmente, anche se emotivamente più superficiale, ci si attendono più cose o si creano più aspettative su colui che per noi è un conoscente invece che da un individuo che sentiamo fraternamente nostro amico. Desideriamo forse avere più vicini i nostri conoscenti (per poterli monitorare e verificare meglio) che i nostri migliori amici che, invece, anche se lontani sono sempre presenti nelle nostre menti e nei nostri cuori.
A chi legge queste mie parole, ora chiedo: quanti amici e quanti conoscenti avete nelle vostre vite? Se seguite quanto detto fino ad ora potrete accorgervi che siamo subissati e circondati da conoscenti, mentre gli amici (quelli che comunemente chiamiamo “veri amici”, come se ce ne fossero dei falsi… oppure, forse, qualche volta siamo noi stessi falsi a noi con le nostre pre-convinzioni sugli Altri) si possono quasi contare sulle punta delle dita (per chi è veramente fortunato, sulle punta delle dita di mani e piedi).
Ma allora, perché sembriamo essere così convinti di venir circondati da amici o, comunque, da persone interessate a noi? Ebbene, questo accade perché le rappresentazioni psichiche di alcune di quelle persone si insediano nella nostra mente sovrapponendo, nei gesti o nei modelli sociali, gli aspetti di conoscenti e amici.
Amicizia come reciprocità

Come tutti sappiamo, l’essere umano è un animale sociale che entra a far parte di gruppi di pari dalla prima infanzia. In questi gruppi l’animale umano acquisisce le proprie identità che diventeranno le seconde (dopo l’immagine familiare) immagini definitorie del proprio Sé individuale, in continua evoluzione. Un vero e proprio salto di qualità, poi, lo si scorge in questo processo durante il periodo adolescenziale, quando l’individuo cerca di trasformare l’identità familiare infantile per adattarla all’immagine identitaria proposta socialmente dal gruppo dei pari che si frequenta. È proprio in questo momento “borderline” che si può generare (ed ahimè si genera) una vera e propria confusione tra la rappresentazione di quello che è un amico rispetto a quello di un conoscente. Il bisogno di identità, di essere riconosciuti ed accettati, propria di ogni essere umano, determina in noi l’accettazione del conoscente (così come lo abbiamo sino ad ora definito) come un amico, poiché attraverso di esso possiamo finalmente sentire di essere stati accolti e di possedere una identità.
È così intuibile che una confusione tra conoscente e amico può facilmente determinare una continua situazione di stress, legato ad aspettative appagate o disattese, tentativi di controllo, desiderio di possesso o, addirittura, di conoscere tutto dell’altro. Un esempio dell’effetto di tutto questo: l’ossessivo desiderio di controllare le attività sui social e i contenuti degli apparecchi elettronici dei propri “amici”, amanti, parenti ed affini. D’altronde i social media richiamano le nostre più intime pulsioni di massa, ovvero la nostra tendenza a regredire verso quei processi psichici che W. Bion (1961) ha sintetizzato nel concetto di Assunti di Base (Attacco-fuga, Dipendenza, Accoppiamento). Tali assunti emozionali guidano la parte più arcaica di noi stessi ed alimentano la parte più evolutiva della nostra mente con la loro potente energia psichica. Ci alimentiamo e condividiamo tale energia con tutti coloro che, analogicamente o digitalmente, ci sono vicini. Tutto in modo fin troppo inconscio e, pertanto, non sempre indirizzabile e sotto il nostro controllo.

Risultato? Soffriamo noi stessi di tali flussi che sentiamo però come rassicuranti perché condivisi con una moltitudine di persone “amiche” (ma dovremmo dire nostre conoscenti), fino a raggiungere livelli per i quali il mondo analogico (per qualcuno, il mondo reale) sembra quasi o troppo lento o richiederci un tale coinvolgimento emotivo da risultarci pericoloso perché troppo invadente, dato che richiede di dire noi chi siamo, di esporre il nostro Sé ad un cambiamento subitaneo.
Il ruolo della paura
Ma perché tutto questo accade? Personalmente ritengo che tutto questo abbia origine dalla Paura. Nasciamo in famiglie i cui rapporti sono caratterizzati da una continua paura di non riuscire a capire/comprendere i desideri e le intenzioni altrui, con la conseguente difficoltà di poter o meno adeguatamente rispondere. Passiamo poi attraverso relazioni sociali improntate sulla paura di non essere all’altezza, di non riuscire individualmente a corrispondere alle aspettative di chi ci guida o sembra ripagarci con il proprio amore ed apprezzamento. Infine arriviamo a lavorare e intessere relazioni “amorose” (io, alcune, le definirei dipendenze sessuali) improntate sulla paura dell’incertezza, del cambiamento, della perdita, del restare da soli con noi stessi.

Lo so, questo mese sembro aver dipinto un quadro nero. Eppure, nel fondo del vaso di Pandora c’era e c’è ancora la Speranza, quella dell’amicizia, della amore vero, che ci aspetta. Una Speranza che non chiede di essere conosciuta ma di essere abbracciata e nominata. Una Speranza che, come primo abbraccio, chiede semplicemente di diventare Amici di noi stessi. La Paura la si placa con l’Amore. Impariamo allora a diventare, in primis, Amici di noi stessi e tutto andrà bene.
Salvatore Rotondi
Condivido pienamente l’ultimo spunto riflessivo: essere amici di noi stessi, saper star bene anche da soli. Fondamentale punto di partenza per la migliore delle relazioni umane. Non genera stati d’ansia ed aspettative sul riscontro altrui, affievolisce il sentimento di delusione permettendo la continua ricerca della persona o delle persone giuste, anche perché star bene con noi stessi non vuol dire abbrutimento e solitudine, e rappresenta inoltre un eccezionale antidoto per combattere l’epidemia del consenso sui social network.
Complimenti dott. Rotondi!