di Federico Iossa

Ha scatenato reazioni fortemente critiche, e bipartisan, la notizia della sentenza della Corte d’appello di Milano che ha ridotto la condanna inflitta in primo grado per violenza sessuale a un uomo di 63 anni, anche sulla base del fatto che la moglie, vittima di sequestro, botte e stupro, lo tradiva e aveva una «condotta troppo disinvolta».

del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli
Il Tribunale di Monza aveva condannato l’uomo, un romeno, a 5 anni di carcere con il rito abbreviato. In secondo grado i giudici di Milano gli hanno scontato otto mesi, con una motivazione che fa discutere. I due, lei è connazionale del marito e ha 43 anni, vivevano insieme in una roulotte in un «contesto familiare degradato». Il matrimonio era caratterizzato «da anomalie quali le relazioni della donna con altri uomini». Il 63enne, definito «mite» nonostante le minacce di morte, le botte inflitte con un tavolino di legno, i pugni e gli schiaffi, gli abusi lunghi una notte, sarebbe stato «esasperato dalla condotta troppo disinvolta della donna», che «aveva passivamente subito sino a quel momento». Circostanze che per i giudici non attenuano la responsabilità, ma sono «indice di una più scarsa intensità del dolo». I reati contestati al marito sono la violenza sessuale ed il sequestro di persona ai danni della coniuge non consenziente.
Il codice sostanziale prevede all’art. 609 bis c.p.che:
“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali(5):
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.“
È bene porre l’attenzione del lettore, sul punto nodale della sentenza, che, a mio avviso, non è stato sottolineato con la dovuta decisione, soprattutto dai “non addetti” ai lavori, i quali hanno espresso nella gran parte dei casi il loro dissenso a questo tipo di interpretazione dei Giudici della Corte di Milano. La pena non è stata attenuata per la minore gravità del fatto, ma per la “minore intensità del dolo”. Ciò sta a dire che, il fatto è comunque considerato grave, e quindi non meritevole della circostanza attenuante ad effetto speciale ex art. 63 che ricorre quando, con riferimento ai mezzi, alle modalità, alle circostanze dell’azione, si ritiene che la libertà personale o sessuale della vittima sia stata compressa in maniera meno grave. Ma al tempo stesso che la volontà di ledere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, è stata in qualche misura cagionata dalla condotta ante litteram della vittima, ovvero “la condotta troppo disinvolta della moglie, che (il marito ndr) aveva subito passivamente fino a quel momento” “che (la moglie ndr) aveva avuto relazioni con altri uomini”.
Questa interpretazione effettuata dai Giudici della Corte, che, lo si ricorda, hanno il compito di verificare l’eventuale sussunzione della ipotesi concreta sottoposta al Loro vaglio, rispetto a quella astratta prevista dalla norma incriminatrice, in realtà si inserisce nel solco di un tipo di decisioni che hanno rappresentato e rappresentano un palese sconfinamento del potere giuridico rispetto ad ambiti differenti quali la morale sociale, la libertà politica, quella religiosa, quella sessuale.

È di poco tempo fa una sentenza della Corte d’Appello di Ancona che aveva assolto due giovani – condannati in primo grado – dall’accusa di violenza sessuale su una 22enne peruviana. Anche in quel caso, le motivazioni avevano destato particolare scalpore: all’imputato principale, secondo la Corte “la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo ‘Vikingo’ con allusione a una personalità tutt’altro che femminile quanto piuttosto mascolina”. Quindi il commento tra parentesi: “(Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare)“.
Siccome era poco avvenente non è credibile che possa essere stata stuprata. È seguendo questo ragionamento che tre giudici della Corte d’Appello di Ancona hanno assolto i due giovani imputati dall’accusa di violenza sessuale su una 22enne peruviana.
Questo tipo di analisi, che sfociano in un approfondimento sulla moralità, così come sulla personalità della vittima del reato, o addirittura su un giudizio di tipo estetico, sono altamente pericolose, poiché nei processi bisogna evitare che l’uso della parola possa essere un ulterioreforma di violenza nei confronti delle vittime.
Termini quali “condotta troppo disinvolta”, od ancora “personalità mascolina, tutt’altro che femminile”, rischiano di rappresentare non solo un elemento a sostegno della mancanza di responsabilità (soprattutto morale) del presunto stupratore della vittima, ma anche di appesantire ulteriormente lo stress cui la vittima è già sottoposta.
Il giudizio sulla moralità della vittima, addirittura preso a pretesto, come nel caso dei Giudici di Appello di Milano, per un’attenuazione del dolo da parte del suo aggressore, nonché coniuge, è elemento che non dovrebbe albergare all’interno delle aule di Giustizia, soprattutto a sostegno di una decisione!
I reati di “genere” colpiscono tutte quelle forme di violenza, da quella psico-fisica a quellasessuale, adoperate su una persona per il solo fatto di appartenere ad una categoria “debole”. In alcun modo il comportamento, od il costume sessuale della vittima del reato, che, lo ricordiamo, ha subito una violenza fisica ma soprattutto morale in grado di alterarne la capacità psichica anche per tutta o gran parte della sua vita futura, dovrebbe indicare la via agli interpreti per una attenuazione della volontà di cagionare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma. Altrimenti il rischio di raddoppiare il danno in capo alla vittima è altamente probabile.
Federico Iossa