di Salvatore Rotondi
“Miei cari amici vicini e lontani buonasera, buonasera ovunque voi siate!” (Nunzio Filogamo, attore e conduttore)

Quanto valore e peso simbolico-emotivo hanno, ancora oggi, le parole di Nunzio Filogamo? Ma chi era Nunzio Filogamo? Ebbene, dato morto da Pippo Baudo nel 1997, lasciò invece questa nostra vita nel 2002 a 99 anni e dopo una vita piena di successi e lavoro. Nato nel 1902, laureatosi alla Sorbona di Parigi in Legge, nel 1934 entrò nella EIAR (futura RAI) dove contribuì alla stagione della diffusione radiofonica dei grandi classici della letteratura, caratterizzando Aramis ne “I quattro moschettieri”. È stato il primo presentatore del Festival della Canzone di Sanremo e, in un certo senso, fondatore di quella schiera di conduttori televisivi (insieme a Corrado Mantoni, che la mia generazione ricorda per “Domenica In” e per il quiz televisivo “Il Pranzo è Servito”, nonché per “La Corrida”) che ancora oggi imperversano a tutte le ore del giorno sui canali Rai, Mediaset e non solo.
Perché questo primo capoverso su Filogamo? Ebbene, perché penso che nella memoria collettiva italiana le sue parole, insieme al famoso “Allegria!” di Mike Bongiorno, rappresentano emblematicamente quell’orizzonte comunitario che, da più di un secolo, cerchiamo utopicamente di raggiungere.
L’invito ad essere Allegri e Accogliere l’Altro, ovunque esso sia, rispecchia la speranza e la paura insita in ognuno di Noi che l’altro possa esserci vicino eppure/oppure estraneo; parole, queste ultime, che assumono ancora più paradossale valore, se si tiene in considerazione il potere pervasivo e distorcente lo spaziotempo acquisito dai mezzi di comunicazione di massa (dalla radio allo smartphone 5G fino alla Realtà Aumentata e Virtuale che presto diverrà quotidianamente familiare).

Siamo ad oggi capaci di sentire vicini a noi, al nostro modo di essere e pensare, persone distanti chilometri o addirittura con ritmi di vita completamente diversi a causa del fuso orario tra continenti. Addirittura possono nascere amori o dissapori tra persone che appena sveglie e prima di andare a lavoro restano in videochat con altre che, invece, soffrono d’insonnia o vivono stati di agitazione emotiva (per non parlare di altri tipi di disturbi o sofferenze psichiche) tali da impedirne l’addormentamento. Insomma, i vicini non sembrano più veramente così lontani (grazie ai moderni mezzi di comunicazione) ma non per questo rischiamo di sentirli meno estranei. Allo stesso tempo, è sempre più evidente come proprio chi ci è più vicino si presenti a noi come il più pericoloso degli estranei (basti pensare a tutti i fatti di cronaca nera che sentiamo ogni giorno, oppure ai continui casi di femminicidio e/o omicidio-suicidio che, tragicamente, irrompono come notizie “distanti” nelle nostre vite).

Se pensiamo alla radice del termine Vicino, troviamo che esso deriva dal latino vicinum, a sua volta legato al termine vicus che stanno ad indicare ‘borgo, villaggio’ o, meglio, appartenente allo stesso vicus. Quest’ultima parola richiama direttamente la mia napoletanità. Io sono nato e cresciuto in un “vicolo” di Napoli. Nei vicoli e nei quartieri della mia città ci si conosce anche se non si è mai scambiati una parola: si appartiene al vicolo, alla sua storia, a quelle pietre pluricentenarie, si condivide la stessa quotidianità fatta di riti, miti e soprattutto memorie. Così era a tempi della mia infanzia. L’appartenenza è qualcosa che ti forma ed informa la tua identità e personalità. È quel genius loci descritto psicologicamente, in modo magistrale, dal prof. Guelfo Margherita nel suo intervento al Convegno Internazionale EATGA European Association of Transcultural Group Analysis “La città psicotica”, tenutosi a Napoli nel 2016.
Il “luogo”, il “setting”, il “campo” morfogenetico (Rupert Sheldrake, 1981) in cui ci formiamo, cresciamo, ci informiamo, accoglie le nostre scelte e, contemporaneamente, le limita attraverso continue frustrazioni da superare, lo spaziotempo intriso di memorie di chi è esistito prima di noi e, pur non elevato agli onori degli altari o dei libri di storia, ha contribuito a determinarne i confini ed i margini di comprensibilità, nonché i misteri ed i non detti che, come compiti transgenerazionali, vengono assegnati alle future parole dirimenti delle prossime generazioni, gli spazi a cui sentiamo di appartenere in modo vitale, passionale, viscerale ci definiscono in quanto esseri pensanti e contribuiscono a quel processo di individuazione psichica che, per molti, rappresenta la vera libertà di sentire e vivere come esseri umani. Tutto questo è qualcosa che va al di là della nostra comprensione cosciente ed agisce in noi come subroutine di un sistema che, troppo spesso, guida le nostre azioni, nel bene come nel male, facendo sì che, con profonda determinazione, arriviamo a distinguere, senza alcun dubbio o scrupolo, quello che ci appartiene perché “vicino” da ciò che è pericoloso perché “estraneo”.

Estraneo, dal latino extranĕus, derivato del termine ‘extra’, indica usualmente lo straniero, il forestiero, qualcosa di non conosciuto, non familiare, con il quale non si hanno legami o rapporti affettivi. Utilizzando questo termine in modo ancora più generico, esso indica un cosa o un chi non appartenente ad una società, un ambiente, o addirittura che non è autorizzato a entrare in un luogo. Tutto quello cioè che penetra nella sacralità delle nostre sicurezze identitarie definite (fossero anche quelle del nostro corpo e/o della nostra mente individuale e sociale), con la possibilità forse incontrollata o incontrollabile di cambiarle, migliorarle o addirittura stravolgerle fino a minacciarne l’integrità strutturale (si pensi, ad esempio, ad un corpo estraneo nel nostro organismo, senza far differenza tra una garza dimenticata dopo una operazione (corpo esterno) o lo sviluppo di una massa tumorale (corpo interno).
Se quindi il Vicino sembra rassicurarci per la sua presunta appartenenza al nostro orizzonte identitario, l’Estraneo invece ci spaventa, entra nelle nostre vite senza quasi essere stato invitato, senza controllo, senza preavviso, con una volontà propria atta a cambiare tutto quello che ci sembrava acquisito, sicuro, definitivo. Eppure siamo circondati dall’Estraneo che non spaventa, ma che anzi ci invita seduttivamente ad accoglierlo come miglioramento di noi stessi: smartphone, domotica, spazi virtuali, occasioni “extra” per chi è fedele alla piattaforma digitale o all’operatore di servizi a cui, ogni anno, paga costi sempre più elevati, protesi o miglioramenti cibernetici o plastici a volte non necessari, etc.. Tutto quell’estraneo rappresenta il diverso al nostro servizio, il diverso che ci semplifica la vita, il diverso che, giustificato culturalmente, ci permette di superare quei “limiti di campo” sopradescritti un paio di capoversi fa.

Ma allora: perché restiamo indifferenti al Vicino che manifesta sofferenza ed all’Estraneo che manifesta problemi simili a Noi? Perché il totalmente Diverso a noi Simile (l’Altro) continua ancora a farci così paura? perché forse porta con sé il messaggio del cambiamento inevitabile, rompendo le nostre presunte certezze? Forse è solo tutta una questione di Cultura, una visione Unica del Mondo che porta in sé, troppo spesso, una presunta superiorità dall’odore mefitico della morte del Diverso, del Cambiamento. Una superiorità che, ancora oggi, rifiuta il messaggio portato dall’Estraneo Sars-Cov2 e dal Migrante: invito ad essere più solidali, più rispettosi della Terra e di noi stessi come tutti appartenenti all’Umanità sempre in continuo Cambiamento ed Ampliamento di Sé…perché Noi non siamo solo cosa pensiamo e/o i comportamenti che svolgiamo: Siamo i testimoni del Divenire della Natura, ovunque saremo!
Salvatore Rotondi